Cap. 12 - Esplorazioni

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"C'era una volta un'elfa che viveva tutta sola nel cuore di una città vivace e laboriosa. Si guadagnava da vivere facendo la lavandaia per diverse famiglie di ricchi mercanti. Ogni giorno si recava da una di loro, raccoglieva la biancheria sporca e la portava a casa, dove la strofinava e la batteva, la metteva ad asciugare sul tetto di paglia e la rammendava se ce n'era bisogno. Il lavoro non le consentiva una vita agiata, però lei era contenta lo stesso perché poteva farlo in completa autonomia.

Non era sempre stata una solitaria. Un tempo aveva avuto un cane. Il cane era stato suo amico. Ma i cani non vivono a lungo e sono pochi quelli che vivono quanto un umano, figuriamoci un elfo, e così arrivò il triste giorno in cui l'elfa si ritrovò da sola. E sola rimase da allora. O almeno così pensava.

Una mattina, nello scendere dal letto, scivolò e cadde. Quando tentò di rialzarsi, non ci riuscì perché si era rotta l'anca. Chiamò aiuto, ma nessuno la sentì e nessuno venne a soccorrerla. Per tutto il giorno, e la notte, e il giorno dopo ancora, rimase a terra. Era debole per la fame, e la sete le aveva tolto la voce. Cominciò a delirare e si scoprì a correre per le vie della città come un tempo aveva fatto il suo cane. Nel sogno era lei il cane e quando incontrò un giovane elfo, gli disse: 'La mia padrona ha bisogno del tuo aiuto. Seguimi, per favore, ti prego.'

L'elfa si svegliò mentre il giovane le accostava una tazza d'acqua fresca alle labbra. 'Ho sognato un cane che mi ha portato qui', spiegò lui. Le salvò la vita, e sebbene lei restò zoppa e fu costretta a camminare con un bastone per il resto dei suoi giorni, da allora furono amici."

· Da "Racconti Elvhen", di Solas Dorren

Quando fui certa che mio padre era partito, sgusciai fuori dal letto, presi una delle candele profumate di mia madre dal comodino e l'accesi con il fuoco del caminetto. La inserii in una bugia e la posai sul pavimento, mentre cercavo nel baule d'inverno una calda vestaglia di lana. Detestavo quel baule enorme. Il coperchio era decorato con squisiti intagli di fiori e uccelli, ma era troppo pesante. Io non ero abbastanza alta per aprirlo tutto, perciò con una mano lo tenevo sollevato e con l'altra ci frugavo dentro. Per fortuna c'era una vestaglia in cima al mucchio e la ruvidezza della lana sotto le dita mi disse che era quella che cercavo. La tirai fuori e feci un salto indietro, lasciando ricadere il coperchio con un tonfo. L'indomani, decisi, avrei chiesto a mio padre di aprire completamente il baule per spostare gli indumenti più caldi in quello più piccolo che aveva costruito per me. La tempesta di quella notte era un chiaro indizio dell'inverno imminente. Era ora di fare il cambio di stagione.

Indossai la vestaglia sulla camicia da notte, e mi infilai le calze di lana pesante.

Presi la candela, aprii la porta e mi affacciai in corridoio. Tutto tranquillo. Uscii dalla stanza e mi richiusi adagio l'uscio alle spalle. Finalmente avrei potuto esplorare il passaggio segreto in lungo e in largo. Da quando lo avevo visto, non avevo pensato ad altro. Avrei voluto tornarci non appena rientrati a casa dall'ovile, ma avevamo dovuto mangiare e poi mio padre mi aveva tenuta sempre accanto a sé, tutto agitato perché quella notte sarebbe stato costretto a lasciarmi da sola. Che sciocchezza. Non lo ero forse ogni notte quando lui si chiudeva nel suo studio o dormiva nel suo letto? Che differenza faceva se in questo caso era lontano da casa?

Presi due lunghe candele dal cassetto della sua scrivania. Arrivata poi nel suo studio, ripetei scrupolosamente le sue mosse di quella mattina: chiusi le tende della finestra, sbarrai la porta ed estrassi il perno dal finto cardine. Quando la porticina si aprì, la casa mi alitò addosso, un gelido refolo di antichi segreti che mi riempì i polmoni. Con il candeliere in mano, entrai nel passaggio. Per prima cosa andai nella stanzetta che mi aveva mostrato mio padre. La perlustrai meglio, ma non trovai niente che non avessi già visto. Era bello stare seduta lì, da sola, con la candela che proiettava un piccolo cono di luce giallognola intorno a me; pensai a quando avrei messo il mio piccolo libro sulla ribaltina, insieme alla boccetta d'inchiostro e alla penna. Fino a quel momento non mi ero mai resa conto di quanto desiderassi un posticino tutto mio. La mia camera da letto mi era sempre parsa uno spazio enorme e freddo, non molto diverso che se mi fossi messa a dormire sul lungo tavolo della sala da pranzo. Lì mi sentivo a mio agio, protetta. Decisi che la prossima volta mi sarei portata un piumino per togliere le ragnatele e spolverare tutto, e un cuscino e una coperta per stare più comoda. Avrei anche fatto dei disegni da appendere alle pareti.

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