Cap. 27 - Acquisti

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"Se qualche allievo va malvolentieri a lezione, allora lascialo andare. Se tutti gli allievi vanno malvolentieri a lezione, allora licenzia il maestro e trovane un altro. Perché una volta che gli allievi avranno imparato che lo studio è noioso, difficile e inutile, non impareranno altro."

· 'Sulla necessità dell'istruzione' dello scrivano Malleore

Quante volte capita che una persona, senza chiederlo, sappia di aver fatto la cosa giusta? Non credo che accada di frequente, e diventa ancora più difficile quando si hanno figli. Dacché ero diventato genitore, avevo messo in discussione ogni decisione presa per la figlia di cui ero responsabile, sia con Ainwen che con Narwain. Una cosa era certa: con Haleira avevo la sensazione d'infilare uno sbaglio dietro l'altro. Non avrei mai voluto che vedesse la parte di me che aveva ucciso il cane. Mi ero lavato il sangue dalla faccia e dalle mani con la neve fresca, però non riuscivo a pulirmi dalla profonda vergogna che provavo mentre andavamo alla taverna, e poi la mia bambina mi aveva guardato e mi aveva ringraziato. Non solo aveva detto che mi capiva, ma aveva anche tentato di appianare le cose fra me e Narwain. Le sue parole non mi avevano liberato dal senso di colpa; Narwain aveva ragione. Avevo completamente trascurato il fatto che avrei potuto metterla in pericolo quando le ondate di agonia del cane mi avevano sommerso. L'incrollabile fiducia della povera bestia nel fatto che, obbedendo agli ordini del padrone, lo avrebbe finalmente compiaciuto era stata una crudeltà troppo grande da sopportare. Avrei dovuto resistere per amore di mia figlia? Haleira evidentemente non la pensava così. La prossima volta, mi ripromisi, sarei stato più saggio. Mi sforzai di pensare a che cosa avrei potuto fare di diverso e non trovai risposta. Ma almeno stavolta mia figlia non sembrava turbata dalla mia avventatezza.

Il cibo era buono, il mio breve diverbio con Narwain era acqua passata e Haleira era felice di trovarsi lì. Alle nostre spalle la porta della taverna si apriva e si chiudeva a un ritmo regolare, come se un enorme mantice pompasse all'interno del locale orde di persone affamate. A un tratto mi resi conto che due di loro erano Ari e Lean. Le braccia di lui erano cariche di pacchi. Si chinò a depositarli di fianco al tavolo, prima di sedersi di schianto sulla panca, subito seguito da Ari dall'altro lato. "Ho trovato delle calze verdi che devo assolutamente avere per la Festa d'Inverno. Festeggeremo a Corvo Bianco, vero? Ma certo, e ci saranno musica e balli! Ci sono già tanti menestrelli in città e sarebbe bello se ne ingaggiassi qualcuno. Però devo riuscire a comprare quelle calze. Sono sicura che se mi presterai il denaro, messer Abelas te ne sarà immensamente riconoscente!" esclamò Ari tutto d'un fiato. Prima ancora che avessi tempo di girarmi verso di lei, dal lato opposto Lean aggiunse: "Ed io ho trovato delle tavolette di cera da un mercante specializzato in articoli innovativi! Le ha incernierate a due a due, di modo che un allievo le possa chiudere e proteggere il lavoro. Che idea brillante! Non ne ha molte, ma tutte quelle che potremo acquistare saranno utili ai miei allievi." Guardai amareggiato il mio scrivano entusiasta. Aveva recuperato in fretta il buonumore e la baldanza. Ero contento che non fosse più intimidito dalla mia presenza, ma al tempo stesso mi turbava la sua smania di comprare gingilli inutili troppo simile a quella di Ari. Gli allievi di Lean avevano davvero bisogno di tavolette incernierate per imparare a scrivere? Non ne ero molto convinto, ma poi rammentai di aver sentito Cedric lamentarsi del fatto che vestivo Haleira come i bambini di vent'anni prima. Forse ero io che mi ostinavo a restare aggrappato alle vecchie usanze. Era tempo di cedere il passo al cambiamento? Tempo di mettere le sottane lunghe a mia figlia? La guardai con la coda dell'occhio. L'adoravo con quella sua corta tunica marrone e le braghe, libera di correre e saltare. Accanto a me Haleira soffocò uno sbadiglio di noia. Mi riscossi e tornai al presente. "Prima le tavolette per gli allievi, poi andrò a vedere quelle calze che hanno tanto colpito Ari." Feci appena in tempo a prendere un pezzo di pane, che Ari mi travolse con un diluvio di motivi per cui avrei dovuto subito occuparmi di quello che desiderava lei: e se il mercante avesse chiuso la bottega, o peggio, qualcuno le avesse comprate prima di lei? Per non parlare del rischio che spendessi tutti i soldi per le tavolette e non mi restasse niente per acquistare le calze verdi o qualunque altra cosa le fosse saltata in mente. Mi sembrava di essere tempestato da una sassaiola, perché Lean parlava insieme a lei, sostenendo che tutto sommato le tavolette non erano essenziali e che ovviamente avrei dovuto occuparmi prima delle esigenze di dama Ari. "Allora farò così. Non appena mi sarà concesso di finire il pranzo" risposi risoluto. "Non mi dispiacerebbe qualcosa da mangiare." disse Ari, soddisfatta di averla spuntata. "Ma non c'è niente di meglio di zuppa e pane? Un pasticcio di mele, magari? Del pollo?" Alzai una mano per chiamare il giovane cameriere. Come arrivò il ragazzo, Ari lo interrogò senza pietà sui piatti che venivano serviti, poi gli ordinò di andare in cucina a chiedere di riscaldare un po' della selvaggina fredda che tenevano in dispensa e di portarla insieme a una crostata di mele secche. Lean si accontentò di zuppa e pane. Il ragazzo spiegò che c'erano delle tortine allo zenzero appena sfornate. Gliene ordinai sei, e il giovane si allontanò. "Sei?" esclamò Ari stupita. "Perché sei?" "Qualcuna da mangiare subito e qualcuna da portare via. Erano le mie preferite quand'ero ospite a Cintra, e credo che ad Haleira potrebbero piacere quanto piacevano a me." Mi girai per chiedere a mia figlia se voleva assaggiare il mio dolce preferito e mi accorsi che non c'era. Rivolsi un'occhiata interrogativa a Narwain. Lui fece un cenno con la testa verso l'uscita del locale; il gabinetto era fuori, da quella parte. Ari mi strinse la manica. "Ho dimenticato di chiedere di speziare il mio sidro!" Alzai una mano per richiamare il cameriere. Il ragazzo teneva la testa china ed ero abbastanza sicuro che fingesse di non vedermi. Agitai il braccio con poca convinzione. Il giovane sfrecciò verso un altro tavolo, dove sei uomini lo accolsero entusiasti dopo aver aspettato a lungo. Lo vidi gonfiare il petto e sciorinare la lista di piatti. Gli avventori sorridevano. "In questo momento è occupato", lo scusai con Ari. "Mi sta ignorando!" "Vado io in cucina a chiedere di speziare il vostro sidro" si offrì Lean. "Nemmeno per sogno! - protestò lei - Quel ragazzo dovrebbe venire qui subito e fare il suo lavoro. Solas Dorren! Non puoi costringere quel bamboccio a fare il suo dovere? Perché ignora i signori per servire un tavolo di zotici? Richiamalo immediatamente!" Trassi un respiro profondo, ma in quel mentre Narwain si alzò con una tale foga che per poco non rovesciò il tavolo. "Ci vado io in cucina. La taverna è gremita oggi. Lascia in pace quel povero ragazzo." Scavalcò la panca e si allontanò nel locale affollato come soltanto lui sapeva fare, passando tra la folla di avventori senza urtarne nessuno. Nessuno tranne Ari. Lei lo seguì con lo sguardo, con le narici frementi e le labbra serrate. Lean lo fissava a bocca aperta. Si girò verso Ari e mormorò: "Non è da lui." "Ha avuto una giornata pesante" lo scusai, rivolgendo il mio commento ironico a Ari, ma lei non parve per nulla imbarazzata. Aggrottai la fronte, con la sensazione che Narwain avesse rimproverato me, oltre che Ari. Lean aveva ragione, non era da lui. Avevo il sospetto che il suo gesto esasperato avesse molto più a che fare con il mio comportamento che non con i capricci della giovane. Chiusi gli occhi per un momento, con l'amaro in bocca. Quella povera, vecchia cagna. Per anni avevo controllato con rigore il mio carattere irruento. Quel giorno le catene del rigore si erano spezzate e non avevo potuto voltarmi dall'altra parte, come non l'avrei fatto se avessi visto qualcuno picchiare Haleira. Non era stato il dolore del suo corpo macilento mentre trottava dietro il barroccio; e nemmeno l'atroce agonia di quando lui la stava facendo a pezzi a farmi agire. No. Quello che aveva fatto cedere le mie barriere, inondandomi di collera, era ciò che la cagna provava verso il suo padrone. Lealtà. L'assoluta fiducia che lui fosse il migliore. Ogni giorno della sua misera vita era stata il suo strumento e la sua arma, sfruttata a suo piacimento. Aveva avuto una vita dura, ma era per questo che era stata allevata. Per quell'individuo, lei aveva combattuto contro tori, altri cani, persino orsi. Qualunque cosa lui le aveva ordinato, lei aveva obbedito, con la gioia di un'arma che fa quello per cui è stata forgiata. Quando si era comportata bene o aveva vinto una lotta, aveva ricevuto un mugugno di apprezzamento, o addirittura un pezzo di carne. Per quanto rari, quei momenti erano stati i migliori della sua vita, e aveva affrontato qualunque sacrificio pur di averne altri. Quando lui le aveva ordinato di attaccare la testa di toro, lei si era avventata sulla carcassa e quando lui le aveva tagliato un orecchio, aveva continuato a stringere i denti, sicura che ci fosse una ragione per il dolore che il suo padrone le stava infliggendo. In fondo era successa la stessa cosa a me quando mio padre aveva cominciato a usarmi. Ero diventato quello per cui lui mi aveva allevato e addestrato. Un Evanuris. Non lo incolpavo per ciò che mi aveva fatto. Se non mi avesse esiliato al Tempio, con ogni probabilità non avrei superato la fanciullezza. Mythal aveva accolto un gemello, un imbarazzo e forse un pericolo per il trono destinato a Lara, e lo aveva reso utile. Addirittura essenziale. E così ero vissuto come quella cagna, facendo ciò che mi diceva di fare, senza mai mettere in discussione se fosse giusto o sbagliato. Non dimenticherò mai la prima volta in cui mi resi conto che gli Evanuris non erano infallibili. Per parecchio tempo, poiché soffrivo di mal di testa quando usavo la mia magia o tentavo di usarla, i miei maestri mi avevano dato dosi di tè. Vere foglie da masticare. Avevo sopportato sbalzi d'umore fra prostrazione ed eccessiva carica nervosa, tutto pur di sconfiggere il dolore. E Mythal mi aveva commiserato e invitato a impegnarmi di più per sviluppare la mia magia. Entrambi non avevamo capito che era proprio il tè ad erodere le mie capacità magiche e ad impedire al mio corpo di fungere da catalizzatore per la magia che permeava ogni cosa. Ma quando lo avevo scoperto, non mi aveva preoccupato tanto il fatto di aver danneggiato la mia magia, quanto che Mythal si fosse sbagliata. Ora iniziavo a temere di essere ricaduto nella stessa trappola. Era difficile cambiare un modo di pensare.

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