Prologo

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Qualcuno bussò svogliatamente alla porta.

Nella frazione di un secondo, Aurora si ritrovò in compagnia di un secondo uomo all'interno del suo ufficio: il primo lo conosceva bene, così come si può conoscere un collega con il quale si lavora gomito a gomito da un paio di mesi, su di un caso di malasanità.

Probabilmente, l'uomo che aveva appena fatto il suo ingresso nella stanza era proprio il loro cliente, con il quale avevano appuntamento entrambi quella mattina, ma di cui entrambi – troppo presi sul pavimento dell'ufficio a raccapezzarsi in quel caos di scartoffie in cui si era tramutata la denuncia del tizio in questione –, si erano completamenti dimenticati.

Avevano finito per perdere la cognizione del tempo e anche un po' di concentrazione, tra sguardi non proprio professionali e strusciatine non proprio accidentali... non che fosse accaduto qualcosa di sconveniente! Ma sapeva bene che, in quei due mesi, le cose con Damiano, il suo collega avvocato, si erano rivelate meno professionali del previsto.

Era bastato uno sguardo, il giorno in cui erano stati presentati per lavorare insieme al caso del chirurgo Leonardo Sutera: lei trafelata, in cronico ritardo, con un completo giacca-pantalone di un grigio
così sbiadito da fare a pugni con il colorito della sua pelle troppo chiaro.

I capelli, che da poco aveva deciso di non portare più cortissimi sulla nuca, lasciando che prendessero ad allungarsi, erano come elettrizzati e indicanti tutte le possibili vie di fuga per i suoi poveri neuroni, soppressi da quel martellante mal di testa che si portava dietro dalla sera prima: Damiano lì, a fissarla da dietro la sua scrivania, come avvolto nel suo completo nero, fresco di sartoria, a rivolgerle uno sguardo truce per la sua intrusione da elefante... prima che, con gli stessi occhi smeraldini, iniziasse a spogliarla. Era questa la sensazione che aveva provato al suo sguardo carico di tensione; un brivido le era corso lungo la schiena, facendola sentire di colpo eccitata, come se le avesse infuocato il sangue nelle vene.

Se solo avesse potuto, se solo non fosse appena uscita da una relazione sentimentale disastrosa, se solo non si fossero trovati sul loro posto di lavoro, probabilmente avrebbe finito per saltargli addosso.

Cosa che poi, di fatto, non era mai accaduta in due mesi, nonostante la tensione che li calamitava l'uno all'altra, nonostante le infinite occasioni in cui avrebbero potuto cedere senza timore di essere scoperti.

Eppure erano rimasti a debita distanza, con quel filo invisibile fatto di palpitante e lussurioso desiderio che li strattonava l'uno verso l'altra, a volte, quasi dolorosamente.

Non appena il dottor Sutera fece il suo ingresso nell'ufficio, Aurora seppe con esattezza come sarebbe andata a finire; lo comprese nello stesso infinitesimale instante in cui i loro sguardi si incontrarono: dopotutto, l'aveva già vissuto sulla propria pelle.

Non che la cosa le dispiacesse, sperava solo che certe dinamiche non si presentassero nuovamente a sconvolgere e confondere tutto, lasciando il passo all'ennesimo conto troppo salato.

Ne era già uscita una volta con il cuore a pezzi, avrebbe preferito evitare che ciò accadesse di nuovo ma, come sentiva ripetere troppo spesso in giro, "non amare per paura di soffrire, è un po' come non vivere per paura di morire".

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