Lina (Biografia - storico)

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Dedicato a tutte le donne a cui hanno detto di "non essere abbastanza uomini"; a cui hanno detto che quel lavoro non è cosa per donne; che il loro cervello non è abbastanza capace di incamerare concetti che per gli uomini sono naturali

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Dedicato a tutte le donne a cui hanno detto di "non essere abbastanza uomini"; a cui hanno detto che quel lavoro non è cosa per donne; che il loro cervello non è abbastanza capace di incamerare concetti che per gli uomini sono naturali.

A tutte coloro che hanno scelto di andare controcorrente: questa storia la dedico a voi.

Buona festa della donna.

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"L'architetto è un maestro di vita, nel senso modesto di impadronirsi del modo di cucinare i fagioli, di come fare il fornello, di essere obbligato a vedere come funziona il gabinetto, come fare il bagno. Ha il sogno poetico, che è bello, di un'architettura che dia un senso di libertà».

(Lina Bo Bardi)

La mia storia è più o meno simile a quella di tante della mia generazione: nata a Roma nel 1914, ero destinata al genere di vita riservata a tante mie coetanee: fare da moglie e madre, curare la casa (magari una bella casa borghese), accudire figli, vivere una vita agiata e vuota, tra feste ed eventi mondani per cui non provavo nessun particolare interesse. Ero una privilegiata, lo sapevo: figlia di una famiglia alto borghese, che per me sognava un buon partito e un matrimonio conveniente, bei vestiti, e feste in cui perdermi e non pensare a quanto sentissi stretto questo ruolo preconfezionato. Non era questo ciò che desideravo; non era il sogno che volevo realizzare. Quello era il desiderio di mia madre, della mia famiglia; non il mio. Per seguire i miei sogni, sono andata contro tutto ciò che la morale del mio tempo considerava inadeguato per me.

Ho scelto di fare un "lavoro da uomini".

Ho scelto di diventare un'architetto *(l'apostrofo è voluto).

I primi giorni nella facoltà di architettura, a Roma, venivo guardata come uno strano fenomeno: la ragazzina borghese che vestiva come un ragazzo, per confondersi tra la folla, capelli corti e poco trucco sul volto. Stavo realizzando i miei desideri, certo,  ma a prezzo di sacrifici enormi, a costo di annullare il mio essere donna. La fatica di frequentare architettura era tanta, soprattutto per me, che dovevo dimostrare a quel mondo di uomini di essere alla loro altezza; grandi erano le delusioni, gli sfottò, gli sguardi dei professori,rigorosamente maschi,  che non mi ritenevano in grado di pensare con la stessa velocità di un uomo o di confrontarmi con un mondo complesso, come quello del progetto architettonico e della sua realizzazione in cantiere.

Si sbagliavano, si sbagliavano tutti.

Il mio cervello funzionava alla stessa velocità di quello dei miei compagni di studi, i miei voti erano i migliori, la fatica per farmi accettare, doppia rispetto a quella dei miei colleghi uomini. Non m'importava. Avrei fatto qualunque sacrificio pur di portare avanti il mio sogno.

Tutto, tranne nascondermi.

E allora smisi di travestirmi da ragazzo e indossai con fierezza i miei completi femminili, i cappellini, che io stessa progettavo e le mie adorate borsette.

Mi laureai a pieni voti e mi trasferii a Milano, città più accogliente ed emancipata, per chi come me, era in cerca di affermazione professionale e personale. Li iniziai la mia carriera: dapprima come collaboratrice presso lo studio di miei più esimi colleghi; poi aprendone uno tutto mio.

Ce l'avevo fatta, ero un'architetto.

La mia attività professionale andava a rilento, non molti si fidavano ad avere a che fare con una progettista, ma non mi arresi, se non potevo progettare case, allora avrei edotto i miei colleghi sul significato del progetto razionale, e della combinazione degli spazi architettonici. Pubblicai articoli, tanti, sulle riviste specializzate e su quelle più frivole, ebbi plausi, anche da coloro che dapprima guardavano la mia passione con sospetto. Mi sposai e insieme a mio marito partecipai alla resistenza antifascista. Finita la guerra c'era un paese da ricostruire, ma non per me. Non ero abbastanza "uomo" da poterlo fare, e allora partii con il mio compagno di vita verso una terra lontana: il Brasile.

Ho amato il Brasile fin da subito, il suo calore, la sua accoglienza li ho fatti miei, è diventata la mia terra, quella in cui ho potuto realizzare i miei sogni.

La sperimentazione è sempre stata il motore che mi ha animata, così come l'impegno politico e il desiderio di dimostrare che una donna è capace di riuscire in un campo che tutti le consideravano precluso.

Nel 1951, la realizzazione della "Casa de Vidro" è stata anche una battaglia vinta: contro le maestranze, che guardavano con sospetto una donna, con tacchi e borsetta, dirigere i lavori di cantiere; contro l'opinione delle signore dell'alta società brasiliana, di cui ora facevo parte, che consideravano la mia professione e il mio impegno sociale e politico, un bizzarro capriccio italiano; contro tutti coloro che mi avevano considerata "non abbastanza".

Non ho avuto figli, perché non sono venuti, o forse per scelta, non saprei dirlo. L'amore per il mio lavoro e quello per mio marito sono stati la mia famiglia. I miei progetti, i figli che ho sempre voluto generare.

Sono Lina Bo Bardi e questa è la mia storia.

Sono Lina Bo Bardi e questa è la mia storia

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