Viaggio tra confini (racconto di viaggio)

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Questo non è proprio un racconto, ma piuttosto un articolo, la storia di un viaggio attraverso confini  fisici e culturali.

Buona lettura


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"La città è tutta marittima, il suo retroterra è già continentale" (Matvejevic)


L'accostamento a Trieste, per chi vi arrivi con il treno, è un'esperienza privilegiata. La città mostra inaspettatamente, in una visione dall'alto, la linea arcuata del fronte mare, il porto in dismissione, la cittadella fortificata e arroccata sul colle, il Carso in lontananza. Tutti gli elementi si fondono assieme al cielo e al mare nel grigio-azzurro che domina la scena; si avverte in distanza il respiro ansimante e metallico dell'antica città-porto, un tempo fiorente appendice industriale, ora desolata cicatrice nel tessuto urbano consolidato. Città di confini, di recinti, di limiti temporali, di mancato rapporto tra parti, "Trieste ha fatto proprie le contraddizioni della frontiera. Solo un momento di maggior avvicinamento, con l' ingresso nella realtà urbana, con l'assunzione dell'imprevisto e con l'accettazione della naturale resistenza che certi luoghi oppongono all'accesso, può favorire la conoscenza e lo studio delle trasformazioni che avvengono a Trieste, città-laboratorio, crocevia di culture ed etnie, paradigma delle città-porto adriatiche, porta verso l'Europa dell'Est. Dalla stazione di testa, che collega Trieste all'Italia, non si vede il mare e, sebbene l'odore di salsedine mista ai gas di scarico impregni l'aria, l'approccio all'acqua è invisibile o negato. Lo sguardo non spazia, il passaggio terra-mare è un confine netto, ritagliato sulle giaciture degli edifici residenziali e sull'imponenza del muro di cinta portuale. Soltanto allontanandosi dal porto si recupera una visione più ampia e il mare appare nella sua vastità. I moli, la stazione marittima, l'acquario, il faro, si mostrano in sequenza lungo il curvo waterfront della città: una giustapposizione di patrimoni formali e tecnici, di segni del lavoro e di scambi commerciali, di grandi contenitori e di spazi in metamorfosi. Trasformazioni lente, forse inesorabili nel panorama urbano contemporaneo, segni che modificano l'interfaccia della città con il mare, alterazioni di equilibrio che investono vaste aree, insinuandosi negli interstizi, dismissioni come smagliature nel tessuto urbano consolidato.

Seguendo l'incessante e mutevole flusso degli interessi commerciali, il Canal Grande, con la chiesa di Sant'Antonio Nuovo come fondale prospettico, punto di passaggio, varco e frontiera tra porto e città, ha spostato altrove l'energia vitale che lo caratterizzava e il Ponte Rosso, un tempo apribile accesso al varco d'acqua interno alla città, come un indicatore di questo cambiamento di usi e di economie, è ora confine immobile tra terra e mare. Luogo di sosta nell'incessante flusso veicolare rappresentato dal nastro stradale, spazio di unione tra identità e particolarismi culturali, Piazza Unità d'Italia, cerniera tra variegati e giustapposti tessuti urbani, improvvisa e grande, racconta di un affaccio privilegiato al mare. Unico vuoto urbano oltre al porto vecchio, che trascende le dimensioni della figura umana, la piazza resta fedele a sé stessa, la sua vastità ricondotta alla vastità dell'orizzonte, rappresenta al contempo una terrazza privilegiata, un varco tra confini, da cui guardare lontano, e come in un processo di osmosi e compenetrazione, lasciar entrare il mare in sé.

Oltrepassando la barriera rumorosa e mobile del nastro stradale, al contempo linea connettiva longitudinale tra le attività molteplici dell'area e separazione-unione tra spazio abitato e spazio acquatico, ecco la banchina e oltre questa i grandi moli in pietra d'Istria, braccia che si stendono in acqua ora esili e nude, ora cariche di orpelli: non più caotici luoghi di attracco e scambi commerciali, ma pacati percorsi d'incontro e spiagge urbane.

Un'autorizzazione speciale permette di varcare i tre archi d'ingresso nel muro che delimita il Porto Franco Vecchio: un territorio diverso, inquietante, silenzioso. Entrare equivale ad oltrepassare una frontiera, oltre la quale l'originario luogo di collegamento e scambio, il nodo infrastrutturale, il complesso contesto spaziale in testata e conclusione della sequenza di parti urbane, è ormai vasta area in dismissione. Non si è più a Trieste ma altrove, in una pausa tra terra e mare, dove frontiera è anche limite di un territorio da riconquistare. Il processo di separazione tra città e porto è compiuto, e la fascia interstiziale che ci si lascia alle spalle è un confine vario e sfrangiato tra le differenti organizzazioni spaziali.

Le proporzioni della macchina portuale, dettate più dal lavoro che dagli uomini, sono impressionanti: le strade, gli edifici, gli spazi di manovra, tutto è commisurato alle attività che vi si svolgevano. Il silenzio è denso, tangibile, in netta contrapposizione con il fragore della città all'esterno, quasi che un confine invisibile l'isolasse anche dai suoni. In questo enorme dispositivo urbano, solo poche sono le parti ancora attive e funzionanti. Altrove, bitte rugginose, funi sfilacciate o marce, ciuffi d'erba sul selciato, edifici cadenti e macchine ormai ferme per sempre, dominano la scena. I docks, ora in pietra d'Istria, ora in mattoni rossi, sono ricoperti di vite canadese, un tocco di colore nella stagione autunnale. Le colonne in ghisa, che imitano capitelli corinzi, sono corrose dal tempo, dalla salsedine e dall'incuria. I binari, con gli scambi ancora funzionanti, sono invasi da gramigna e piante di fico. Tutto il panorama è grandioso nelle sue infinite prospettive centrali, nei suoi ampi spazi, nell'incombenza della collina e del mare. Nella sua enorme desolazione, il senso di estraneità dalla città è fortissimo.

Il confine come territorio culturale, ha, in molta parte della città, lasciato spazio a territori desertificati, zone grigie e marginali, prive delle problematicità conflittuali tipiche della condizione di soglia. Luoghi che se da un lato rappresentano aree di libertà, ove silenziosamente si attuano processi spesso invisibili e generalmente improgettati, dall'altro vengono isolati "emarginando il margine", esasperando il loro stato di abbandono anche istituzionale.

Tentare di restituire senso di confine esplicitandolo con azioni progettuali che ne declinano modalità: così la frontiera può tornare ad essere, di volta in volta, punto di accavallamento o scavalcamento, slittamento pilotato di usi, sovrapposizione, sostituzione o scambio tra parti diverse, spostamento o distacco, ma immancabilmente supporto dell'interazione, campo perturbato e reattivo che riorganizza dispositivi, strati urbani e tempi per farne materia da mettere in opera in programmi di riassetto infrastrutturale, e di riacquisizione di senso dello spazio pubblico nel quadro complesso della città contemporanea.

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