L'uomo che coltivava orchidee (drammatico)

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Guardo quest'orchidea, che una conoscente generosa e tenera mi aveva regalato qualche giorno prima. La osservo: le sue foglie di un verde smeraldino con striature tendenti al magenta scuro, le sue radici, protratte verso l'alto in cerca di umidità e luce, curve, carnose, come dita che si aggrappano con forza alla vita; ne osservo il gambo, liscio quasi lucido, ma sottile, troppo, per sorreggere il peso dell'abbondante fioritura; poi, infine, mi soffermo su di esso, il fiore candido con intense striature purpuree, i petali setosi, il profumo lievissimo. Socchiudo gli occhi, e per un istante mi sembra di rivederla la mia vita, quella meravigliosa vita che non avevo saputo apprezzare, quella vita, che di doni me ne aveva fatti tanti, ma che a causa della mia cecità e nella smania di successo, non avevo saputo cogliere.

Guardo questo dono inaspettato e penso a quanto possa essere beffardo a volte il destino.

Le orchidee erano il suo fiore preferito: quelle del suo bouquet al nostro matrimonio erano di un candore quasi abbagliante; quelle che le avevo regalato alla nascita della nostra bambina, rosa, con screziature dal giallo al rosso intenso. Lei aveva sorriso, lei sorrideva sempre, anche quando l'uomo che amava si era trasformato in una persona diversa e oscura.

Mi amava, perché ricordava ciò che ero, l'uomo che avevo dimenticato di essere.

Chiusi gli occhi per un istante, perso nel dolore del ricordo: il fiore tra le mani; il calore umido e quasi opprimente della serra, in cui ormai passavo la maggior parte delle mie giornate, a chiudermi la gola e il cuore. Dovevo uscire, subito.

Poggiai il fiore sul davanzale, protetto dalle correnti d'aria, che provenivano da quell'angolo sperduto di mondo in cui mi ero rifugiato e affrontai il vento freddo che sferzava le brughiere a picco sull'oceano.

Camminai in solitudine, sulla spiaggia ciottolosa: il rumore della risacca e l'odore salmastro del mare; i soli a farmi compagnia in questa mattina d'autunno.

Mi guardai attorno, perso nei ricordi di una vita meravigliosa, la vita sulla quale avevo sputato tutto il mio disprezzo, quella stessa che in un solo istante si era trasformata in un incubo, una vita che facevo fatica a vivere.

Mi sedetti su una scogliera, ad osservare il mare sconfinatamente tormentato, le nuvole spesse e scure, cariche di pioggia imminente; a sentire il vento sferzarmi la pelle, senza riguardo, senza attenzione; screpolandola, arrossandola. Lei amava la mia pelle, diceva che era liscia come i petali delle sue amate orchidee. Lei amava il mio corpo, amava il mio cuore e la mia mente ma io... io ero accecato dal successo, improvviso e grandioso, dai soldi guadagnati con facilità, dal sesso facile, da tutto ciò che poteva portarmi godimento immediato, per rendermi conto di cosa stavo facendo alla mia vita e a quella della mia famiglia.

Fissai ancora l'acqua sotto di me per un lungo momento: che tentazione quella di saltare giù e di farla finita una volta per tutte. Sarebbe così facile...

Se fossi saltato giù, il mio corpo sarebbe stato dilaniato dalle onde e dagli scogli, in pochi istanti la morte ristoratrice sarebbe sopraggiunta e tutto sarebbe finito in fretta. Troppo in fretta.

Scossi la testa per l'ennesima volta; da quando ero in quest'isola, sperduta nel mare del Nord, questo pensiero aveva accarezzato, maliardo, la mia mente molte volte, soffermandosi sui dettagli, sulle modalità... e ogni volta l'avevo testardamente accantonato. Non potevo morire, non dovevo.

Avevo scelto di restare, non per voglia di vita, ma piuttosto per il contrario. La punizione per i miei crimini, sarebbe stata viverla questa vita a metà, questa vita che aveva inciso indelebilmente sul mio corpo e sulla mia anima, i segni di ciò che sarebbe potuto essere e che non sarà mai più; quella vita che non avrei potuto avere. La mia vita con loro.

La pioggia iniziò a scendere violenta e triste, come i sentimenti che albergavano nel mio cuore oscuro.

Zoppicai verso casa, ad attendermi una zuppa in scatola, un bagno e le mie piante, le uniche vere amiche che mi restavano.

Chiusi gli occhi, mentre il calore ristoratore leniva i miei acciacchi, e mi concessi per un solo istante di ricordare ciò che ero stato...

Avevo un'altra vita allora.

Laureato con lode in economia, un dottorato di ricerca alle spalle, ero presto diventato uno dei più giovani e rampanti imprenditori del paese.

Avevo un'altra vita allora.

Invidiato, richiesto, fotografato; avevo stupito tutti con la mia intraprendenza, il mio fascino, la mia bravura in affari, il mio fiuto e la mia totale mancanza di morale.

Avevo un'altra vita allora.

Una moglie bellissima che trascuravo e tradivo, una figlioletta dolcissima che mi amava con tutta l'innocenza dei suoi tre anni, ma che per me era solo un altro impegno cui ottemperare.

Avevo un'altra vita allora.

Il sesso, la cocaina, l'alcol, non avevano ancora ottenebrato il mio cervello, che lavorava con la forza dirompente di un rullo compressore.

Avevo un'altra vita allora...

"Il noto imprenditore Daniel Landon, coinvolto in un incidente stradale. Probabile causa: guida in stato di ebbrezza. Salvo per miracolo, è ora ricoverato in condizioni gravi ma stazionarie. Perdono la vita, la moglie Sarah e la figlioletta Lily".

Avevo un'altra vita allora.

Quando pensavo di essere forte, invincibile, inattaccabile; superbamente al di sopra di tutti gli altri inutili, insignificanti esseri che popolavano il nostro pianeta alla deriva.

Avevo un'altra vita allora.

Prima che la distruggessi con le mie stesse mani.

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stavo pensando ad una storia con questo prologo, ma non ho ancora idea di come e se continuarla...

Chissà!

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3/12/2020

ok, ci ho pensato un po' su e ho buttato giù qualche capitolo per trasformare questa OS in un racconto lungo...

ecco a voi in anteprima la copertina che ho pensato

ecco a voi in anteprima la copertina che ho pensato

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