Nei giorni in cui Amnesty International lancia una campagna contro il bullismo, una tredicenne di Milano ci ha raccontato come ci si ammala di violenza (e come si può guarire)
Perché una ragazzina normale comincia a picchiare i coetanei? Per orgoglio, per reazione alle prepotenze subite da altri, ma soprattutto per solitudine. Nei giorni in cui Amnesty International lancia una campagna contro il bullismo, una tredicenne di Milano ci ha raccontato come ci si ammala di violenza. E come si può guarire.
"Mi chiamo Giulia, ho 13 anni, vivo a Milano, studio al liceo di scienze umane, classe prima, e sono una bulla. Sì, una di quelle che picchia, insulta, offende. Sono una bulla e ho cominciato seguendo gli esempi degli altri. Anzi, delle altre. Quelle che si accanivano contro di me già alle elementari. Le mie compagne di classe. Bambine, e io più bambina di loro perché sono andata a scuola a cinque anni. Mi guardavano male, chissà poi perché. Mi dicevano che ero piccola perché nata nel 2004 e non nel 2003 come loro. Che ero una fallita perché avevo l'apparecchio per i denti e pronunciavo la esse con il sibilo. Che mi vestivo male perché non indossavo magliette e felpe di Abercrombie. Che ero brutta perché avevo i capelli corti e ricci come un barboncino. Mi ricordo feste di compleanno, merende di fine scuola: non ho mai ricevuto un invito. Sempre esclusa.
Per anni sono stata quella brutta e sfigata, poi ho deciso che ero stufa di essere la vittima
Poi le medie. Stesso quartiere, stesse compagne in una classe quasi tutta femminile. Io di nuovo isolata, fin da subito. Ma da lì è partito il peggio. Mi sbattevano per terra astuccio e quaderni, mi sfilavano la sedia, mi scrivevano ingiurie sul banco. Quando hanno detto che ero la figlia di una stronza, insultando mia madre, non ce l'ho più fatta. Ho deciso che quella cosa non poteva andare avanti. E ho reagito con gli stessi comportamenti che avevo subito per anni. Anch'io ho cominciato a sfilare dalle cartelle libri e quaderni e a buttarli nel cestino. Anch'io ho iniziato a scrivere con i pennarelli indelebili insulti sui banchi, a tirare cancellini e astucci, a tormentare quelle che avevano tormentato me. Rubavo i cellulari dalle borse, i soldi dai portafogli. Non perché avessi bisogno di denaro ma perché volevo che provassero quello che avevano fatto provare a me.
Ho iniziato a picchiare. Picchiavo quelli che non mi piacevano, che mi facevano arrabbiare. Tiravo calci e mi sentivo forte, potente. Stavo bene, ero soddisfatta di fronte alla loro paura. La mia vendetta: ero io ora quella tosta, ero io che facevo del male. No, gli insegnanti non mi hanno mai beccata. Erano indifferenti e io ero scaltra. Non che non pensassi a quello che stavo facendo, avevo sentito parlare di bullismo in televisione per un caso di cronaca. Sapevo che mi stavo comportando malissimo, ma non ero completamente consapevole, ero piena di rabbia. A casa non ho mai fatto parola su quanto mi stava accadendo. La mia mamma ha 43 anni ed è malata di cancro, il medico mi ha detto di non darle problemi più di quanti già ne abbia. Non volevo angosciare lei e mio padre. E poi io ho il mio orgoglio, voglio farmi rispettare per quella che sono.
Sapevo che mi stavo comportando malissimo, ma non ero completamente consapevole, ero piena di rabbia
È successo un giorno come tanti. A lezione di pallavolo una compagna mi ha detto che mia madre non sarebbe guarita. Che di tumore si muore. Ho cominciato a picchiarla e più la picchiavo più pensavo che era troppo. Troppo. Ho visto tutto nero, non mi ricordo quasi niente. Ricordo solo che avevo di fronte un tubo di ferro e le ho spinto la testa contro. Ricordo che non mi fermavo e che quando ho smesso di picchiarla c'era tanto sangue. Le avevo fratturato la fronte, fatto un occhio nero. È stato tremendo ma è stata anche la mia fortuna. Il preside ha chiamato i miei genitori e io ho finalmente parlato con loro. Mamma e papà mi hanno rimproverato e capito e tanto aiutato.
A scuola sono intervenuti gli educatori di Pepita, una cooperativa sociale che si occupa di bullismo. Hanno lavorato con la classe, dando a tutti - bulli e bullizzati - una grossa mano a uscire da tanta violenza. Chi è vittima di bullismo diventa un bullo, è questo che accade. Io mi sono resa conto di avere sbagliato. Ma non sono pentita. Se non lo provi sulla tua pelle, non puoi capire cosa significhi essere bullizzato. Così come se non lo diventi, non puoi capire cosa significhi essere un bullo. Sei violento, fai lo spavaldo con gli altri, poi torni a casa e hai i rimorsi. Ti chiedi perché l'hai fatto, sai che non era il caso di comportarsi così. Ma il giorno dopo ricominci.
Se non lo provi sulla tua pelle, non puoi capire cosa significhi essere bullizzato
Se racconto la mia storia è perché credo sia giusto e utile far sapere che a scuola possono succedere cose che i genitori neanche immaginano. E mi fa ancora male l'indifferenza di quegli insegnanti che non hanno mai colto il mio disagio. Ora frequento il liceo, in una classe fantastica, che ha saputo accettarmi per come sono e non per come sembro. Com'è che ho detto? Mi chiamo Giulia, ho 13 anni, vivo a Milano e sono una bulla. No, non è più così. Io mi chiamo Giulia, ho 13 anni, sono una studentessa del liceo di scienze umane, classe prima. Ero una bulla e oggi sono una ragazza felice".
(testimonianza di Giulia raccolta da Monica Triglia)
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Il bullismo
Short StoryQui scrivo delle testimonianze che ho trovato molto significative a me. Spero che vi possono far capire molte cose.