Quando Paul arrivò nei pressi della fossa comune, decise che mai e poi mai avrebbe lasciato lì Brian.
Se avesse avuto il coraggio di guardare all'interno, avrebbe visto i cadaveri nudi e scheletrici ammassati l'uno sull'altro, in un incastro che era da considerarsi quale ultima possibile espressione di umana solidarietà in quel luogo.
I loro occhi puntavano il cielo, come aspettando delle scuse che non sarebbero mai arrivate, ma che, quanto è vero Dio, meritavano.
La pioggia lavava quei vuoti contenitori d'anime, filtrando da un corpo all'altro come fossero stati sabbia e ciottoli, e non fiori recisi.
Ma, anche senza guardare dentro, anche senza osservare quella devastazione, Paul sentiva chiaramente l'odore di morte e paura che la fossa emanava, e che la pioggia non riusciva a purificare.
Brian con il tempo sarebbe andato mischiandosi a quel tetro museo d'ossa bianche, a tratti ancora rivestite da strati di pelle sottili come veli, condividendo con loro il proprio amaro destino.
Paul rabbrividì e si bloccò, stringendo più forte il corpo dell'amico, ancora caldo di un calore che sembrava appartenere più alla vita che alla morte.
Imprecando, se lo caricò nuovamente sulle spalle, rifuggendo la cavità nel terreno, per paura che quelle mani scheletriche potessero artigliargli la caviglia e trascinarlo con loro.
Le sue gambe lo portarono, secondo l'istinto più naturale, nell'unico luogo in cui si sentiva ancora minimamente al sicuro: il block dodici.
Si fermò davanti alla porta, riflettendo brevemente sul da farsi.
Poi, deposto Brian a terra, le sue mani iniziarono a scavare nel fango accanto al block, intaccando il sottile spazio di terra che separava una baracca dall'altra.
Lavorò instancabilmente finché non ebbe scavato una fossa di forma irregolare, profonda quanto il suo braccio.
"So che non è il massimo, Brian, ma così potrò venire a trovarti, ogni tanto" si giustificò, volgendosi verso il cadavere immobile.
Si sentiva pazzo, a parlare così a un morto, come se da un momento all'altro Brian potesse mettersi a ridere e rispondere, ma sembrava essere l'unico modo per trattenere l'ennesima crisi di pianto.
E Paul aveva poco tempo, sicuramente troppo poco per sprecarlo in singhiozzi.
"Scusami" aggiunse, imbarazzato, prima di iniziare a spogliare l'amico per privarlo della divisa che gli sarebbe stata richiesta dalle SS al ritorno.
Funzionava così, l'economia di Auschwitz.
I cadaveri venivano spogliati, e le loro divise riadattate ad altri prigionieri, in un immenso circolo d'orrore.
Paul prese con delicatezza Brian fra le braccia, distendendolo nel terreno e sistemandolo al meglio, come ad assicurarsi che potesse star comodo.
È una delle sciocche fissazioni degli uomini, accomodare i morti perché siano sereni anche nel loro ultimo sonno, quello da cui non si sveglieranno più.
Una fissazione sciocca, senza dubbio, ma che per Paul funzionò meglio di qualsiasi balsamo.
Smise di piangere, all'improvviso, e prese a ricoprire la fossa che aveva scavato, il cuore che si ribellava dolorosamente a ogni centimetro di Brian che scompariva sotto il terreno, e rimpianse il fatto di non avere con sé dei fiori.
Non aveva idea di dove avrebbe potuto prenderli -ad Auschwitz i fiorai scarseggiavano, sapete- né, in effetti, cosa i morti se ne facessero esattamente, dei fiori, ma ripiegò su quella piccola mancanza per mettere a tacere il resto, come suo solito.
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𝐒𝐌𝐎𝐊𝐄 𝐁𝐄𝐍𝐄𝐀𝐓𝐇 𝐀 𝐒𝐈𝐋𝐄𝐍𝐓 𝐁𝐋𝐔𝐄 𝐒𝐊𝐘 - mclennon
Fanfic[mclennon] Da quando era ad Auschwitz aveva visto trentasette cieli bianchi, sessantatré cieli neri e ottantacinque cieli grigi. Era il suo modo per non impazzire, guardare il cielo mutare sopra di lui, e quello era il primo cielo azzurro che avesse...