16. HELDEN

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Una delle cose che Mary soleva dire -prima che li abbandonasse per sempre, s'intende- era "Tu riscrivi le persone nella tua testa, tesoro, e poi ti cuci quella storia sugli occhi per impedirti di vedere la realtà".

In seguito alla fuga della madre, Paul aveva cercato di rimuovere dalla propria mente tutti quei piccoli ricordi, dolci e velenosi insieme.

E, a volte, gli sembrava persino di esserci riuscito. Ma bastavano piccole cose, come un temporale, per far sì che tornassero a tormentarlo, a riportargli alla mente la voce tenera di Mary mentre lo stringeva e diceva "No, Paul, amore, non piangere. Sono solo angeli che giocano a bowling".

Il sangue si ribellava agli assurdi precetti del rancore, anche a distanza di così tanti anni, e lo prostrava con cavalloni di cocente nostalgia.

Sua madre lo aveva conosciuto come nessun altro al mondo, c'era poco da fare a riguardo, ed anche in quel momento Paul si trovava malvolentieri a darle ragione.

Aveva costruito nella propria mente un prototipo di George Harrison perfetto e senza paure, rifiutando caparbiamente di vederne le debolezze.

Era proprio da lui, inventare eroi immaginari, sostituirli alle persone reali perché tutto fosse più facile.

Non per loro, oh no, l'egoismo di Paul non lo avrebbe mai permesso, ma su se stesso funzionava perfettamente.

Ma George era così intelligente, così tutto, troppo per poter credere davvero che il folle piano di Stuart Sutcliffe avrebbe portato a qualcosa di buono, e questo Paul avrebbe dovuto capirlo.

E George aveva cercato così tante volte il suo aiuto, supplicandolo di vedere le sue paure, addomesticare i suoi demoni, quantomeno provarci, a stargli accanto sul serio.

E Paul era stato cieco, aveva voltato il capo davanti alle sue debolezze, aveva lasciato che le affrontasse da solo e ne venisse divorato.

Lo aveva fatto in quel primo giorno di cieli azzurri, quando George aveva parlato di maschere e Paul aveva pensato semplicemente oh, davvero una bella metafora, ne verrebbe fuori un libro niente male mentre l'altro piangeva di fronte a lui.

Lo aveva fatto quando Ringo era stato aggredito e George era sembrato a un passo dal crollare insieme a lui, freddo e disperato al tempo stesso, e lui si era ritenuto infastidito dal fatto che l'altro avesse svelato un lato del proprio personaggio che Paul non aveva considerato, una variabile che non desiderava affrontare.

Lo aveva fatto quando aveva ascoltato George sussurrargli che lo amava, a mezza voce, e nonostante questo Paul aveva continuato a fingere di dormire perché l'amore costringe ad avere a che fare con le persone vere e questo fa paura.

Va bene amare qualcuno che non si conosce davvero, sulla base di un carattere inventato, perché questo è sicuro, questo è facile.

Ma l'amore è un'altra cosa, grande e ingestibile, e Paul non credeva si sarebbe mai ritenuto abbastanza forte per questo.

"Richie, non hai idea di quanto assuefacente sia credere che non esistano ombre nelle persone che amiamo" sussurrò piano, senza neanche rendersene conto.

Il polacco slacciò delicatamente una mano dalla stretta dell'amico e gliela posò sulla guancia umida, lavando via con la pelle ruvida del pollice le lacrime che Paul non smetteva di versare, "E tu non sai quanto sia pericoloso" rispose con dolcezza, un rimprovero totalmente vuoto, leggero.

E l'altro crollò in ginocchio davanti a lui, come un bambino, rifugiando il viso sulle sue ginocchia, "Non sono pronto" ammise.

Ma Ringo aveva già iniziato a raccontare.

𝐒𝐌𝐎𝐊𝐄 𝐁𝐄𝐍𝐄𝐀𝐓𝐇 𝐀 𝐒𝐈𝐋𝐄𝐍𝐓 𝐁𝐋𝐔𝐄 𝐒𝐊𝐘 - mclennonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora