chapter ten

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K a e ' s p o v

Continuavo a camminare in tondo nella stanza semivuota. Dopo circa cinque minuti di passi inutili mi sedetti sull'amaca un po' malconcia della camera in cui mi ero rintanata. Le mie mani raggiunsero i capelli e le dita vi si insinuarono in mezzo. Il silenzio regnava sovrano. Il mio respiro era lento ma non del tutto regolare. Ero seduta da non so quanto. Non facevo altro che pensare alle parole che avevo urlato a Peter. Forse avevo esagerato o forse l'aveva fatto lui o magari entrambi eravamo nel torto. Torturandomi le mani continuai a pensare a lui. Una stupida domanda che vagava nella mia testa insieme agli altri pensieri, ma quella era un punto fisso. Per quanto cercavo di annegarla continuava a riemergere nel mare di pensieri che era diventata la mia mente nei minuti trascorsi in solitudine. La domanda era semplice: anche lui starà pensando a me? Una parte della mia anima incoerente, quella un po' egocentrica ed egoista, era sicura di sì, l'altra invece, quella insicura, non trovava la risposta alla sua stessa domanda.

Mi alzai in piedi di scatto. Stanca dei pensieri e di stare chiusa in una stanza. Nello stesso momento in cui mi alzai, la porta si spalancò. Un ragazzo dai tratti delicati, la pelle ambrata, i capelli corti che gli davano un aspetto da adulto e con degli scuri occhi a mandarla entrò nella stanza. Era Gea, uguale a come lo ricordavo prima di lasciare l'isola. Strinse le sue labbra che si trasformarono in una linea sottile. Eravamo faccia a faccia. Quel enorme massa indistinta alla bocca dello stomaco che definivo come malinconia la ricercavo nei suoi occhi, nella speranza di trovarla al posto della confusione. Non si ricordava di me. Come biasimarlo? Erano passati decenni per lui, mentre per me solo qualche anno.

Dalla stanza adiacente arrivava un vocio incessante, indistinto, come un sussurro lontano. Quelle voci venivano attutite dalle pareti di legno, così da lasciare la camera silenziosa, fino a quando Gea non aveva aperto la porta, facendole entrare.

Iniziai a parlare "So che probabilmente non ti ricordi di me..." Non finii la frase perché lui mi interruppe a metà "Mi ricordo" Disse in un sussurro silenzioso "Sono ricordi sfocati, ma ho questa immagine dei tuoi capelli rossi che si muovono mentre corri davanti a me. Eri molto più piccola e sicuramente scalza" Continuò con un tono di voce leggermente più alto. All'ultima frase puntò lo sguardo verso miei piedi e indicò con l'indice le miei Nike consumante e sporche della terra del bosco.

Le osservai anche io per qualche minuti in cerca delle parole giuste da dire. Sentii il suo sguardo sulla mia figura in cerca dei ricordo consumati dal passato. Mi sorpassò quando il mio sguardo era ancora puntato sulle scarpe ai miei piedi. Chiusi la porta, non sopportando più il vocio dei Bimbi Sperduti, e mi avvicinai a lui sedendomi sull'amaca. Lui si sedette accanto a me.

"Quello che hai detto a Peter" Cominciò a dire "Lo so, ho esagerato, non avrei dovuto" Mormorai. Un sospiro frustato fuoriuscì dalle miei labbra. "In realtà volevo dirti che, secondo me, hai ragione. Peter ha la mania del controllo e vuole che nessuno vada da qui. Lui pensa che sia meglio così, credo" Le sue parole erano incerte. Ero sicura avesse paura del giudizio del maggiore dei Pan.

Sospirai nuovamente. "Che ne dice se ricominciamo. La nostra amicizia intendo" Dissi cambiando soggetto del discorso. "Ci sto" Rispose con un leggero sorriso ad increspargli le labbra.

Parlammo per un po'. Gli raccontai di New York e lui mi descrisse le cose che avevo perso stando nell'altro mondo. Le solite cose: lotte con i pirati e stupidi scherzi tra i Bimbi Sperduti. Ovviamente non mi disse tutto, solo le parti salienti, visto la lunghezza del tempo che avevo perso sull'Isola.

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