CAPITOLO 18: LA SPERANZA PASSA PER L'INFERNO

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Nives

Finalmente ero potuta uscire da quella cella lugubre e maleodorante. Ero così contenta che il piano di James avesse funzionato e che Aaron e Luke fossero venuti a salvarci che quasi mi dimenticai della cosa che fino a solo qualche istante prima mi premeva di più. Quasi. Fu proprio questo pensiero che mi fece bloccare sul posto a metà corridoio: non potevo ancora andarmene, non così.

«Fermi tutti!»

«Che c'è?» domandarono gli altri voltandosi.

«Sebastian!»

«Intendi tuo fratello? Cosa c'entra lui?» chiese subito Aaron allarmato.

«E' qui»

«Come qui, ma non era morto?» fece lui non capendo.

«Così credevo, ma invece è vivo ed è qui. Dobbiamo salvarlo, non me ne posso andare senza di lui» mormorai in tono concitato rivolta ai presenti.

Tutti tacquero soppesando le mie parole infine fu Luke come al solito a prendere una decisione.

«Sai dove si trova?»

Annuii risoluta.

«Allora facci strada» ordinò col suo solito ghigno di sfida.

Gli lanciai uno sguardo di sincera gratitudine prima di voltarmi e cercare di ricordare la strada che l'altra volta avevo percorso con l'ufficiale fino al laboratorio. «Per di qua»

Ci volle un po' prima di riuscire a raggiungere la meta in quel labirinto di bivi sotterranei «E' qui» dissi dopo un po' fermandomi proprio davanti alla porta di quel luogo che ancora allora, nonostante fossi già a conoscenza di cosa vi si celasse al di là, continuava a mettermi i brividi eppure, la cosa che forse riuscì a terrorizzarmi ancora di più se vogliamo fu vedere che l'ingresso era stato lasciato aperto: di certo non un buon segno. Con una mano scansai quel portone in solida lastra metallica ed esso si aprì al nostro passaggio come se nulla fosse.

Quando anche gli altri vi misero piede si realizzò sul loro volto la stessa espressione che si doveva essere formata sul mio la prima volta che vi ero entrata. In principio fu solo shock, confusione, ma ben presto lo spaesamento si trasformò in puro e indicibile orrore. Si avvicinarono a quei corpi tenuti sospesi alle pareti, imprigionati da cinghie e attraversati da parte a parte per mezzo di cavi robusti. Li guardarono da vicino e lì vidi l'orrore nei loro volti diventare qualcosa di forse anche peggiore: paura.

«Che cosa gli hanno fatto? Che posto è questo?» era stato Luke a parlare, il primo forse ad averne trovato il coraggio.

Ed io mi ritrovai a rispondere con una sola parola, l'unica a mio avviso che avesse il potere di descrivere quel posto assurdo «L'inferno»

«Eri già stata qui?» volle sapere subito Luke, quando mi vide annuire un'espressione di rabbia gli deformò il volto «Chi sono quelli là allora?» quasi ringhiò mentre estendeva d'impeto un braccio ad indicare una di quelle povere cavie da laboratorio.

Feci una smorfia «Loro sono come me» mi ritrovai ad ammettere fra i denti.

«Hanno fatto questo anche a te?» Aaron, che non si era perso una sola parola della nostra conversazione, aveva anch'egli i lineamenti deformati dall'ira.

«No, per fortuna no. A loro servo viva. O meglio a lui.»

«A lui chi? »

Strinsi i pugni «All'ufficiale. Ad Alexander»

«Nives» s'intromise James a quel punto «che cosa ti ha fatto quell'uomo quella volta che ti ha portato qui?»

Non feci in tempo a rispondere perché da quel momento tutto accadde troppo in fretta. Ci furono confusione, urla e grida. Venni presa in malo modo e sbattuta da qualche parte. La botta fu tale che mi tolse il fiato dai polmoni. Solo quando mi ripresi dal dolore potei accorgermi di cosa stesse accadendo. Davanti a me, a pochi centimetri, si trovava il volto di Alexander. Mi teneva addossata al muro col suo corpo, le mani ai lati della testa per impedirmi ogni più piccolo movimento. Portai lo sguardo per un attimo oltre il suo volto per vedere come erano messi gli altri e mi sentii un pochino più sollevata quando appurai che tutti stavano bene, immobilizzati anche loro, ma pur sempre illesi. Alexander però mal tollerò il fatto che lo stessi ignorando e mi sposto presto il mento così da tornare a guardarlo dritto in volto, subito dopo rimise il braccio dove si trovava prima, al lato della mia testa e rimase in silenzio per interminabili istanti. Allora, per la prima volta da quando mi ero imbattuta in lui, mi presi il tempo per osservare il suo aspetto. Neri. I suoi occhi erano neri. Di un nero immenso e profondo, e scuro, come solo una notte senza stelle poteva essere, come la tonalità che risulta dalla totale assenza di luce. Questo fu il primo aspetto che mi balzò agli occhi e mi accorsi allora, non senza una certa sorpresa, che anche lui mi stava studiando proprio come lo stavo studiando io. Tornai ad osservarlo in volto. Anche i capelli erano neri, ma parevano setosi e sbarazzini come quelli di un bambino. La pelle era diafana, quasi bianca, in netto contrasto con gli altri tratti del viso, appariva addirittura trasparente, come un foglio di carta velina pronto a strapparsi alla prima incuria, qualcosa però nel modo in cui essa si tendeva a lato della sua bocca mi diceva che non era affatto così. Riportai lo sguardo nei suoi occhi ma come spaventata lo distolsi subito per poi tornare a riposarvi il mio un attimo dopo: c'era qualcosa, c'era qualcosa in lui che mi impediva di fuggire, che mi costringeva a combattere, a guardare il diavolo dritto negli occhi e sfidare il suo giudizio, proprio come inconsciamente o consciamente avevo fatto fino a quel momento.

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