Capitolo 18. Strana sensazione.

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Sono passati ormai sei giorni da quando mia madre è stata operata e le sue condizioni non sono assolutamente migliorate.
Passo a trovarla ogni sera all'uscita dal lavoro ma i medici non hanno mai buone notizie per me: è sempre sedata ed intubata perchè da sola non riuscirebbe a respirare e ieri ha avuto anche una crisi cardiaca. Sono riusciti a stabilizzarla di nuovo solo per miracolo.

Ammetto che inizio seriamente a sperare che tutto questo finisca al più presto, in qualsiasi modo. Sono stanca dello stress, dell'ansia, dell'attesa. Sono stanca dell'incertezza, del non sapere come andrà a finire.

Penny mi è stata molto vicina in questi giorni. Ha accolto i miei sfoghi, asciugato le mie lacrime, consolato le mie paure. Sono sempre più convinta che l'esserci incontrate quel giorno all'agenzia immobiliare sia stata una grande fortuna. Penny è diventata una certezza nella mia vita sfigata. L'unica certezza, direi.

Anche Mike mi ha chiamata varie volte, si è proposto per accompagnarmi in ospedale e mi ha chiesto di passare qualche serata da lui per distrarmi un po' ma ho cercato ogni scusa possibile per rifiutare. Sicuramente ha capito che qualcosa non va tra di noi, al di là della situazione che sto vivendo in questo momento con mia madre.

Al lavoro Cora, Grace e Amy mi trattano come se fossi un vaso di cristallo sul punto di frantumarsi in mille pezzi. L'aspetto positivo è che hanno sospeso l'interrogatorio su Alex, su quando stavamo insieme. In compenso mi chiedono decisamente troppe volte come stò e mi lanciano costantemente occhiatine preoccupate. Il che mi fa sentire ancor di più la gravità della situazione.

Alex invece cerca di comportarsi normalmente. Ha capito che voglio solo non pensare a ciò che sta capitando fuori dall'ufficio e mi sono di grande aiuto i suoi tentativi di distrarmi.

Ho fatto il possibile in questi giorni per concentrarmi sul lavoro ed essere efficente come sempre.
L'incontro col signor Ellis lunedì è stato nauseante. Continuava a guardarmi insistentemente, da vero viscidone, e a lanciarmi frecciatine nemmeno troppo velate ma credo di essere riuscita a mascherare il mio ribrezzo nei suoi confronti.
E il mio sforzo per sopportare questa situazione è servito a qualcosa: abbiamo trovato diversi punti d'incontro sul progetto che ci ha presentato e se riusciremo ad accordarci su un paio di altre questioni di cui discuteremo a breve potremo chiudere l'affare.
Ieri ci ha contattati anche un altro importante cliente interessato alla costruzione di una mega villa ecosostenibile. Non è un personaggio del calibro del signor Ellis ma il lavoro che ha in mente non è niente male.
Considerando che siamo agli inizi in questo nuovo settore possiamo ritenerci soddisfatti degli accordi che stiamo per chiudere.

Io, dal canto mio, sono orgogliosa di me stessa. Finora ho svolto il mio lavoro sempre con precisione ed attenzione, nonostante la mia naturale tendenza ad essere disordinata e confusionaria. Ho superato il periodo in cui Alex mi trattava come una pezza da piedi senza dare in escandescenza, riuscendo a costruire un discreto rapporto lavorativo con lui. Ed ora sto affrontando questi giorni di stress e preoccupazioni senza ripercussioni sul lavoro.

Anche oggi cercherò di fare del mio meglio, nonostante mi sia svegliata con una strana sensazione addosso. Mi sento più agitata del solito, più distratta, più inquieta. Da quando ho messo piede giù dal letto ho come il presentimento che qualcosa di brutto debba succedere da un momento all'altro.

La mia ansia si palesa quando Alex entra in ufficio col suo ormai abituale ritardo ed io, al cigolio della porta, faccio un salto sulla sedia.

"Ti ho spaventata? Scusa."

"No, non è colpa tua, sono io. Oggi sono agitata senza motivo."

"Sentirai il tempo. Fa un freddo cane fuori e se non sbaglio a te non piace troppo. Credo nevicherà prima di sera." Dice appendendo il suo cappotto.

"In effetti c'è aria di neve e si, non mi piacciono per niente queste temperature gelide." Dico arrossendo leggermente nel constatare che ancora si ricorda certe cose di me.

Torno a concentrarmi sul lavoro che avevo appena iniziato, cercando di ignorare la sensazione di inquietudine che si è impossessata di me e, al contempo, di non farmi distrarre dai movimenti di Alex nella stanza. Ora che ha smesso di fare lo stronzo è molto più semplice lavorare con lui ma fatico decisamente di più a gestire i ricordi, la nostalgia per il tempo passato insieme, il desiderio di riaverlo. Sono un caso disperato, non lo supererò mai.

Un paio d'ore più tardi, mentre sono con lo sguardo fisso al computer, il mio cellulare inizia a vibrare sulla scrivania facendomi saltare sulla sedia per la seconda volta nell'arco di poche ore. La paura vera, però, mi invade solo quando leggo sullo schermo il numero dell'ospedale.
Lancio una rapida occhiata ad Alex dall'altro lato della stanza il quale sta ricambiando il mio sguardo, serio.

"Pronto?" Dico portando il telefono all'orecchio.

"Signorina White, chiamo dall'ospedale. Sua madre ha appena avuto una grave crisi respiratoria. Ha modo di raggiungerci? I medici stanno facendo di tutto ma temiamo che questa volta non riuscirà a superarla. Mi dispiace molto."

Ecco spiegata la strana sensazione. Spiegate l'inquietudine e l'agitazione. Non era tutta ansia ingiustificata, stava davvero per succedere qualcosa di grave.
Mia madre sta morendo.
Volevo che tutto finisse, in qualsiasi modo... ed eccomi servita. So che è assurdo ma mi sento quasi responsabile di ciò che sta accadendo, come se Dio, il fato, il destino o come lo si voglia chiamare avesse esaudito un mio desiderio.

"Signorina White?" Dall'altro lato del telefono l'infermiera si assicura che io sia ancora in linea.

"Si, arrivo subito. Arrivo."
Aggancio il telefono ed osservo di nuovo Alex, il quale sembre aver capito tutto senza spiegargli nulla.

"L'ospedale?"

"Si... mia... mia madre... questa volta credo che non... non...." Continuo a starmene seduta sulla mia poltrocina, pietrificata, senza nemmeno riuscire a concludere la frase.

"Cosa aspetti? Vai, corri! Anzi... meglio che ti ci accompagno io. Non mi sembri nelle condizioni di guidare."

In un attimo Alex mi raggiunge, mi aiuta ad infilare il giubbino come si fa con i bambini e mi prende per un braccio accompagnandomi all'uscita. Sento a malapena la voce di Cora che ci chiede cosa succede, poi le porte dell'ascensore si chiudono ed iniziamo a scendere verso il parcheggio.

Senza rendermene bene conto mi trovo seduta sull'auto di Alex, quella che ci aveva portati a Richmond qualche settimana fa. Guida veloce tra le strade trafficate di New York lanciandomi qualche occhiata ogni tanto ma io le percepisco appena.

Arrivati all'ospedale Alex parcheggia nel posto più vicino all'entrata che riesce a trovare, mi aiuta a scendere dalla macchina e senza mai lasciare la mia mano mi porta all'interno.
So che dovrei correre, darmi una mossa, ma non ci riesco. Mi sento rallentata, come in quelle scene dei film in slow motion. Nulla di ciò che sta succedendo mi sembra reale.

Seguendo le indicazioni dell'uomo al banco informazioni Alex mi trascina in un corridoio mai visto, diverso da quello che porta alla stanza in cui è stata mia madre finora. Infondo troviamo una sala d'attesa vuota ma, un istante dopo il nostro arrivo, un  medico ci raggiunge. Tempismo perfetto.

Ha un'espressione seria in viso e sembra sinceramente dispiaciuto quando mi dice che, nonostante tutto il loro impegno, mia madre non ce l'ha fatta.











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