Capitolo 16. Pensieri.

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"Reb, mi hai sentito?"

Mi ridesto all'improvviso.
"No. Scusa Mike, mi ero incantata."

È da un paio di settimane, da quando sono tornata da Richmond, che ho difficoltà a concentrarmi. Mi ritrovo ogni tre per due con la mente altrove e lo sguardo perso nel vuoto, soprattutto quando sono con Mike.
Il fatto è che non sono più sicura di voler stare con lui e questo pensiero mi assilla e mi rende inquieta.

In realtà sono sempre stata ben consapevole di aver iniziato questa storia solo per cercare di riempire un vuoto. Semplicemente lui è stato il primo che ho incontrato la sera in cui avevo deciso fosse ora di andare avanti, di provare a conoscere qualcun altro.
Sono andata in un lacale con Penny e Dave, ho bevuto un paio di drink e mi sono buttata in pista. Quando Mike mi si è avvicinato iniziando a ballare con me mi sono detta: ok Reb, dagli una possibilità, datti una possibilità.

E così ho lasciato che le cose accadessero. Abbiamo ballato e chiacchierato tanto quella sera... poi ci siamo scambiati i numeri, ci siamo incontrati di nuovo, il primo bacio, un altro appuntamento, l'invito a casa sua... ed eccoci qui. Sono arrivata a questo punto senza quasi accorgermene.

Non sono stata male con lui in questi mesi, ma non mi sono nemmeno mai chiesta se stessi bene davvero.
Il rientro di Alex nella mia vita però mi ha dato una scrollata. Mi ha ricordato com'era sentirsi felici, leggeri, pieni. Mi ha ricordato com'era bello emozionarsi per un bacio, sentire il cuore scoppiare durante un abbraccio, ridere di gusto insieme a chi ti fa stare bene.
Mi ha ricordato com'era sentirsi vivi.

E mi ha fatto capire che mi sto accontentando.

Non che io sia una ragazza arrendevole, tutto al contrario. Nella mia vita ho sempre dovuto sguazzare nel fango e ci ho messo un sacco di energie solo per restare a galla, per non spronfondare e soffocare nella merda che mi ha spesso circondata. Certo, mi bastava sopravvivere, tirare avanti, non lasciarmi abbattere, ma solo perchè già questo era una grande conquista. E perchè non potevo fare altrimenti: la famiglia non te la puoi scegliere, ho fatto quel che potevo con quel che mi è capitato.

Ma ora è diverso. Ora si tratta di costruire il mio futuro e se voglio sia meglio del passato non posso fare errori già dalle basi. Al mio fianco devo avere qualcuno che mi renda felice davvero.

Sbatto le ciglia e metto a fuoco Mike fermo davanti a me. Mi guarda in silenzio, in attesa, ed io capisco di essermi incantata ancora una volta.

"Scusami. Di nuovo. Credo... credo di doverti parlare." Non ha senso aspettare. Prendi il coraggio a due mani Reb!

"Sei strana ultimamente."

"Lo so, è che..."

Vengo interrotta dal mio cellulare che inizia a suonare dentro la borsetta. Aspetto imbarazzata che la musica finisca, quindi cerco di riprendere il discorso... ma il telefono suona di nuovo, insistente.
Lo afferro e sbianco.

"Istituto" leggo sullo schermo.

Non mi chiamano mai dall'istituto. Che lo facciano un venerdi sera a tarda ora mi preoccupa parecchio.

"Pronto?" Rispondo mentre Mike mi guarda stranito.

"Signorina Rebecca. Sono Karen, la direttrice. La chiamo per sua madre, l'hanno appena portata d'urgenza in ospedale, purtroppo sembra abbia avuto un ictus."

In un attimo sono in auto e sfreccio a tutta velocità verso l'ospedale. Mike avrebbe voluto accompagnarmi ma mi sono opposta fermamente: non sa della condizione di mia madre, della sua malattia degenerativa, e non intendo informarlo proprio ora.
Gli ho promesso che l'avrei aggiornato al più presto e che avremmo anche ripreso il discorso lasciato in sospeso.

Al banco informazioni dell'ospedale chiedo dove possa essere mia madre e, seguendo le indicazioni di un gentile signore di mezz'età, raggiungo una sala d'aspetto quasi vuota. Tra le poche persone noto il Dottor Burny, il medico dell'istituto.

"Dottore, cosa succede?" Chiedo con l'affanno per via della corsa che ho fatto per giungere fino qui.

"Rebecca. Mi dispiace molto. Sua madre sta affrontando un intervento delicato. Sembra le si sia rotto un aneurisma cerebrale di cui non sapevamo l'esistenza."

"Come è possibile?"

"Succede se non ci si accorge dell'aneurisma e non lo si cura. Aveva mal di testa già dal pomeriggio ma solo dopo cena ha iniziato a lamentarsi con insistenza finchè ha avuto una crisi epilettica ed ha perso i sensi. Abbiamo chiamato i soccorsi e l'hanno portata subito in sala operatoria."

Ascolto le parole del medico cercando di realizzarne il significato. Mi sembra tutto impossibile, come se non stesse succedendo davvero.

"È una cosa molto grave? Si riprenderà?" Chiedo.

"Vorrei dirle che non è nulla di preoccupante ma non è così, non è una sciocchezza. Se supererà l'intervento riporterà delle conseguenze non indifferenti, potrebbe addirittura non riprendere più conoscenza."

Mi prendo qualche secondo per metabolizzare la notizia. Poi, realizzando che non c'è nulla da fare se non aspettare informazioni dai medici che la stanno operando, congedo il dottor Burny promettendo anche a lui che avrei aggiornato l'istituto sulla situazione il giorno successivo.

Rimasta sola mi lascio andare su una poltroncina, la testa appoggiata alla parete, lo sguardo fisso al soffitto bianco e la mente invasa da un vorticare di pensieri.

Ho sei anni, frequento la prima elementare, sono al cancello della scuola con la maestra Kety, in attesa. I miei compagni sono probabilmente tutti già arrivati a casa, mia madre invece si è dimenticata di venirmi a prendere, di nuovo.
Si è ricordata di avere una figlia solo quando la maestra le ha telefonato. Era a casa di un'amico, ha detto. La volta prima era dal parrucchiere. E quella prima ancora a fare shopping.

Ho sei anni, frequento la prima elementare, sto tornando a casa a piedi dopo scuola, sola. Dopo la quarta volta che ricevava la chiamata dalla maestra mia madre ha scritto alla preside dando alla scuola il consenso per farmi uscire da sola, perchè "non può ogni giorno venirmi a prendere", povera donna.

Ho dieci anni, sono le 9 di sera, mia madre è uscita nel tardo pomeriggio e non è ancora tornata. Il frigo è vuoto proprio come la mia pancia ma continuo a ripetermi che tra poco lei tornerà. Quando arriva non è sola, c'è un uomo con lei. Senza quasi guardarmi mi butta sul tavolo dieci euro e mentre si chiude in camera con quel tizio sconosciuto mi urla di andare a prendermi una pizza, che lei ha già mangiato.

Ho tredici anni, è domenica pomeriggio e sono sul divano a guardare la TV. Quando mia madre rientra, dopo essere stata in giro con un'amico, guarda me e subito dopo la pila di vestiti appoggiati sul tavolo.
"Non hai pensato di stirare? È quasi tutta roba tua! Come ci vai a scuola domani, in mutande?!" Mi lancia una scarpa addosso lasciandomi un livido sul costato.
Una lacrima scivola sulla mia guancia, non per il male fisico ma perchè sento di essere una delusione.

La lacrima che sta solcando ora il mio viso invece, qui in questa sala d'attesa, non so bene come spiegarmela. Non so dire come mi sento in questo momento.
Da un lato sono un po' preoccupata perchè, nonostante lo strano rapporto che abbiamo sempre avuto, quella in sala operatoria rimane comunque la donna che mi ha messa al mondo e che, in qualche modo, mi ha fatta crescere.
Dall'altro lato però mi ritrovo con vergogna a pensare che, se non dovesse superare l'intervento, potrei liberarmi di un peso.
Riconosco che la mia vita è nettamente migliorara da quando ho portato mia madre all'stituto ed io sono andata a vivere con Penny. Ma dover spendere un terzo del mio stipendio per pagare l'istituto è comunque una fatica e passare a trovare mia madre ogni sabato pomeriggio è un sacrificio.

Se non dovesse superare l'intervento non dovrei più preoccuparmi per lei... sarei finalmente libera.






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