8. Pace

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Hanji se ne era andata il giorno stesso in cui era venuta, facendo ripiombare il castello nel silenzio più assoluto. E da quel giorno – ne erano passati tre – Levi non aveva più fatto visita a Petra.

Seduto alla scrivania della sua stanza, con un tè ormai freddo e scartoffie burocratiche ancora da ultimare, si chiedeva come potesse risolvere il problema con la ramata.

Non era arrabbiato con lei. O almeno, gli pareva di non esserlo. Credeva, però, che lei lo fosse con lui, così aveva limitato le sue visite a brevi momenti in cui era certo che l'avrebbe trovata addormentata: la mattina presto, il pomeriggio dopo pranzo, la sera tardi. Solo per vederla in viso, solo per poterla guardare per qualche minuto e illudersi che ricordasse perfettamente ogni cosa, che si sarebbe svegliata e, riconoscendolo davvero, l'avrebbe salutato in quel suo tipico modo gentile e rispettoso. Illudersi che forse avrebbero parlato di quello che lei gli aveva detto.

Mi sto rammollendo, pensò con un grugnito di disapprovazione rivolto a se stesso. Sorseggiò il tè disgustosamente gelido che Eren gli aveva portato almeno un'ora prima e di cui si era stupidamente dimenticato, e si guardò la gamba infortunata. Se solo avesse potuto annegare quelle preoccupazioni in un po' di sana azione, non si sarebbe ritrovato a fissare il muro di fronte a sé con tanto impegno.

Il tumultuoso flusso dei suoi pensieri fu bruscamente interrotto dal rumore di deboli colpi alla sua porta.

«Che vuoi, Eren?»

«Sono Petra».

Levi non potè fare a meno di pensare che la piccola sensazione di gioia che aveva provato nel sentire la sua voce fosse davvero inopportuna. Poi, però, si ricordò che a separare la nuova stanza di Petra dalla sua c'erano due lunghi corridoi e due rampe di scale; scattò in piedi e andò ad aprirle la porta.

Petra se ne stava lì, col respiro leggermente affannato, reggendosi con una mano allo stipite. Sorrideva debolmente e aveva la fronte lievemente imperlata di gocce di sudore. I vestiti bianchi esaltavano la sua carnagione pallida. Nonostante quell'aspetto malaticcio, però, i suoi occhi brillavano di una viva determinazione, la viva determinazione di una volta.

«Ehilà» lo salutò Petra giovialmente, tra un ansimo e l'altro.

«Tu dovresti stare a letto» le disse innanzitutto, per quella malsana e abitudinaria necessità di rimproverare chiunque gli capitasse a tiro.

«Anch'io sono contenta di vederla» scherzò lei, sorridendo divertita.

«Tch. Non ho detto di non essere contento di vederti, ma...»

«Se rimango immobile nel letto non guarirò mai» replicò Petra, portandosi le ciocche disordinate di capelli ramati dietro le orecchie. «A ogni modo, visto che è contento di vedermi, mi chiedevo se volesse fare una passeggiata nel giardino. È una giornata troppo bella per sprecarla».

«Perché ti sei affaticata tanto? Avresti potuto chiedere all'infermiera di venire a chiamarmi». Era più forte di lui, non riusciva a dire altro che non fosse di biasimo. In realtà, però, era sorpreso dalla forza d'animo che ci aveva messo per fare tutta quella strada. Aspetta... «E poi, come fai a sapere dove si trova la mia stanza?»

Petra sembrò rendersi conto solo ora di quella stranezza. «Io... non lo so...» balbettò, incerta. «Mi sono solo preoccupata di mettere un piede davanti all'altro. L'inconscio ha fatto tutto da solo, forse... come i cavalli... che sanno tornare a casa anche senza la guida del cavaliere» mormorò, guardando il pavimento con il vuoto negli occhi, mentre cercava di unire i punti di quel disegno confuso – ma sembrò rinunciarci quasi subito. «Allora... andiamo?»

It Happened Quiet || RivetraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora