Beatrice

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Marzia. Sempre Marzia. Chi poteva essere se non Mazia?

Non la sopportava. Non l'aveva mai sopportata fin dal primo superiore.

Aveva un motivo preciso? Uno screzio? Una Lite?

No, niente di tutto ciò. Fatto sta che le dava il nervoso.

Non sopportava la sua voce, troppo stridula per quel viso così adulto. Non digeriva la sua camminata: sgraziata, pesante, mascolina, completamente opposta al suo modo di vestire. Non concepiva come potesse essere così apprezzata dai ragazzi: era bassa, era butta, era scema, era spocchiosa. Non capiva come potesse ottenere voti più alti dei suoi. Non capiva come tutti i professori si fidassero di lei, elogiandola come la perfetta rappresentante di classe, affidando a lei ogni compito, come se Beatrice non esistesse, come se non fosse la seconda della classe, come se, dopo Marzia, non ci fosse nessun'altro.

Beatrice d'altronde era così: destinata ad essere perennemente al secondo posto. Nessuno l'aveva mai apprezzata realmente per quello che era. Doveva sempre essere più di sé stessa. Beatrice al mondo non bastava.

Doveva essere più magra: troppe forme, troppo volgare. Più femminile: il trucco nero le appesantiva gli occhi, già troppo scuri. Più bassa: nessun ragazzo sarebbe mai stata con una stangona del genere. Più intelligente: il suo impegno non bastava, i suoi risultati non erano mai ottimi. Più caparbia, più costante, più partecipe, più interessata, più donna, più matura.

Beatrice non era perfetta, nessuno lo è d'altronde, eppure, queste imperfezioni a Beatrice pesavano più degli altri: doveva essere un punto di riferimento, un modello, una donna da stimare.

Per questo odiava Marzia: nonostante il suo essere saccente, petulante, snob, troia, posava fiera su quel piedistallo di perfezione al quale Beatrice aspirava da tutta la vita, e non lo riteneva giusto, sentiva di meritarselo più di lei eppure, malgrado il suo impegno, malgrado la sua sicurezza, nessuno sembrava accorgersi della vera Bea, di quella ragazza bellissima ed intelligente che ogni mattina guardava allo specchio.

Si sentiva come se non riuscisse ad esprimere sé stessa, si sentiva imprigionata nella Beatrice risiedente nelle menti altrui. Voleva urlare al mondo che era diversa, che era meglio di così, che era più intelligente, che si piaceva. Ma il mondo non aveva occhi che per qualcun altro, lei era la seconda, la "quasi più brava", la sveglia, la furba, mai la migliore.

Questo continuo confronto lo respirò fin da piccola, dentro la sua famiglia. All'età di tre anni infatti sua madre le portò a casa un regalo mai chiesto, mai veramente desiderato.

Le disse che si chiamava Emanuele, che era il suo nuovo fratello, che avrebbe dovuto amarlo e curarlo, e che non gli avrebbe mai portato via l'amore dei suoi genitori. Tutto vero, ad eccezione dell'ultima frase.

Sua madre le aveva mentito, Emanuele crebbe, amato da lei sì, ma soprattutto amato dai suoi genitori. Non ne capì mai il motivo, non ebbe mai il coraggio di chiederlo. Eppure, era così evidente: i suoi stravedevano per il loro nuovo pargolo, e la cosa non cambiò nei successivi quindici anni.

Emanuele diventò uguale a suo padre, alto, sportivo, decisamente un bel ragazzo, ma tremendamente stupido e superficiale. Beatrice non riusciva a capire come si potesse stimare così tanto un ragazzo così nullafacente, non studiava, a casa non faceva che stare attaccato alla playstation, lanciando qualche bestemmia di tanto in tanto. Beatrice non si sarebbe mai azzardata a dire certe cose in casa conoscendo la religiosità dei suoi, la massima trasgressione era stata un "che palle" anziché un "che scatole", e ciò le costò addirittura una bella strigliata da parte di sua madre. Per Emanuele invece no, lui poteva, non ne aveva motivo, non c'era una logica, ma lui poteva e a tutti sembrava andare bene così.

Mentre i topi ballanoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora