Limbo

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Limbo

Non posso scendere in campo oggi, Lucy... Non sono un buon manager... ho paura!

Volevi fare il manager e farai il manager. Adesso vai fuori e fai il manager!

***

Ciao, Charlie Brown! Dove sei stato? Ti stavamo aspettando...

Beh, prima credevo di non farcela ma alla fine sono venuto qui sotto l'influsso dell'influsso!

(Peanuts– Charles M. Schulz)

Princeton.

Princeton.

Princeton.

Se lo ripeto altre cento volte magari mi sembrerà davvero di non star vivendo un sogno.

Provo anche a sillabarlo. Le lettere si sciolgono in bocca.

Così come sembrano sciogliersi anche le mie gambe e le dita delle mani che stringono almeno dieci opuscoli studenteschi.

Come se la sola vista di questa fortezza di pietra dallo stile neogotico che d'ora in poi dovrò abituarmi a chiamare casa avesse il potere di rendere i miei arti simili a budino.

Sento sotto la pelle un crescendo che va dallo stupore, all'incredulità, passando per l'eccitazione mista a qualcosa di indefinibile, per approdare poi allo spavento, al panico e all'ansia. Del tipo: "Cacchio! Sono a Princeton. Sono una matricola universitaria. Sono a Princeton. Sono al college. Sono a Princeton.". E poi di nuovo: "Cacchio! Sono a Princeton." Il tutto, questa volta, con un accento diverso. Con sfumature diverse.

Della serie: "Tutto molto bello, incredibilmente bello, ma ora? Che faccio? Dove vado? Sarà il posto giusto per me? Non lo sarà? E se non lo sarà, cosa farò? E se lo sarà, cosa farò?".

Mi sento piccola piccola sotto l'aurea intelligente di questo colosso. Sotto l'aurea della mia università.

La mia università.

Tutto di questo posto trasuda cultura e sapere. La fila di finestre; alcune bifore, altre trifore, altre sporgenti, che sembrano occhi pronti a scrutare ogni mossa; il grande orologio che troneggia sopra l'entrata ad arco raggiungibile con una seria di scalini su cui già immagino il suono dei miei passi; i tetti che già vedo davanti agli occhi pieni di neve nel periodo invernale; il verde che fiancheggia la struttura e il viale che assomiglia a quello di un libro di fiabe che mi raccontava mia mamma quando ero piccola.

La prima e ultima volta che sono stata qui ero ancora una studentessa del liceo, spaventata alla sola idea di dover fare il colloquio con qualche pezzo grosso che avrebbe potuto decidere del mio futuro, con una stupida lettera di raccomandazioni tra le mani e decisamente tanta paura.

Lo ricordo ancora il mio colloquio. Dopo le solite domande di rito mi fu chiesto perché Princeton, uno dei college più prestigiosi al mondo, avrebbe dovuto scegliere me. Me lo chiedo anch'io, avrei voluto rispondere. Sentivo queste cinque parole premere sulla punta della lingua, sui denti, sulle labbra per uscire fuori. Alla fine, tuttavia, risposi semplicemente che avrebbero dovuto prendermi perché volevo dimostrare ai tipi come Holden Caulfield, che riteneva "schifa" l'idea di frequentare un'università della Ivy League, che Princeton poteva essere un posto anche per loro.

Una delle cose più assurde e insensate che potessero passarmi per la testa. Tuttavia, funzionò.

Adesso, la paura non solo è rimasta, ma è aumentata. Non sono più una liceale con un carico di speranze troppo pesanti. Sono una studentessa universitaria, una studentessa di Princeton. Sì, non è questo il momento in cui finirò di ripeterlo. Il bagaglio di speranze c'è sempre, è ancora più pesante, ma sono speranze in qualche modo diverse.

Un fidanzato come Holden MorrisDove le storie prendono vita. Scoprilo ora