Lancette

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Lancette

"La mia coperta se ne va... Vola via sopra gli alberi, le colline, le montagne, l'oceano... non la vedrò mai più... mai più... mai più... mai più. Potrei anche arrendermi... non posso vivere senza quella coperta... non posso affrontare la vita disarmato! "

(Peanuts – Charles M. Schulz)

–Non credere che siccome i nostri vecchi sganciano bei verdoni per farci stare qui allora verranno a ripararci il pavimento se ci farai un buco.

I miei occhi corrono verso Roxy e la sua solita faccia a metà tra l'annoiato e l'apatico. Ha messo da parte il suo fumetto e le cuffie e, con le braccia incrociate sul petto, mi fissa come se non potesse farne a meno.

–Ho la borsa di studio. – è l'unica cosa che riesco a dire.

–Non c'entra. Nessuna borsa di studio coprirà le spese per eventuali danni all'infrastruttura di questo posto.

–Ma io non voglio pagare nessun danno, anzi. – non capisco perché mi stia facendo questo discorso.

–E allora mettiti seduta e dimmi che succede. Non so se te ne sei accorta, ma sono esattamente trentacinque minuti che fai su e giù per la stanza.

Oh.

Sospiro e faccio ciò che mi dice.

–Scusami, è che... siamo ormai da un mese qui e le spese pian piano iniziano ad aumentare e mia mamma e il suo compagno... sì, insomma, non voglio che loro continuino a mandarmi troppi soldi, e allora io...

Un mese. È già un mese che sia una studentessa di Princeton. Che condivida la stanza con una ragazza che non sia Pam o Chas. Che non veda la mamma, la nonna, Bob, Wolverine. Un mese di lezioni universitarie. Un mese in cui non abbia ancora fatto amicizia o in cui sia riuscita a sedermi accanto a qualcuno.

È già un mese, o solo un mese?

Se mi volto indietro sembra che sia passato tutto così in fretta. Io che soffio su diciotto candeline, la cerimonia dei diplomi, di nuovo io che stringo con le dita tremolanti la pergamena mentre la nonna mi scatta una fotografia, esortandomi a fare uno dei miei sorrisi a trentadue denti, il ballo di fine anno. L'estate, la vacanza al lago, Holden che mi insegna a nuotare, la notte in cui abbiamo dormito insieme, io che faccio le valigie, i saluti alla stazione, il primo giorno di lezioni.

Ma se mantengo lo sguardo fisso davanti a me, ho l'impressione che sia entrata dentro quel vortice distorto, di echi, ombre e insicurezze, che avevo percepito il primo giorno. Che ci sia stata risucchiata e che non ci sia mai più uscita. Tutto scorre al passo di una lumaca, vecchia e stanca. È una lentezza che sento dentro. Fuori, all'esterno, tutto sfreccia: le persone, il vento che smuove le foglie sugli alberi che pian piano stanno perdendo la loro brillantezza, le pagine dei libri, i passi frettolosi dei professori e delle professoresse, i baci nascosti delle matricole, le canzoni alla radio. Sono io che sto rallentando. Rallento come un orologio che si illude di essere al passo con gli altri perché continua a far girare le sue lancette. In realtà sta solo arrancando. Tic. Pausa. Toc. Pausa.

–Vorresti un lavoro? – mi distrae dai miei pensieri.

Annuisco. – Ho già lasciato il mio curriculum a tre pub, due caffetterie, un negozio di elettrodomestici e alla ludoteca, – elenco con le dita. – ma... mi hanno rifilato il classico "ti faremo sapere" e sappiamo entrambe cosa significhi. – infilo le dita tra i capelli.

– Hai provato a vedere nelle aulette dei rappresentanti?

– Cosa? – mi volto nella sua direzione, corrucciando la fronte.

Un fidanzato come Holden MorrisDove le storie prendono vita. Scoprilo ora