19.

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Il calore della tazza si diffondeva velocemente sulla pelle delle mie mani, il fumo saliva, appannandomi la vista. L’aroma di cioccolato mi avvolgeva in un abbraccio caldo mentre osservavo gli altri condomini oltre il vetro della mia finestra, senza però vederli realmente. Un’anonima ragazza che finge di guardare anonimi palazzi di un anonimo grigio in un’anonima cittadina piena di anonimi abitanti. Solo uno faceva eccezione, e aveva procurato così tanta confusione nella mia vita che il mio buonsenso mi consigliava di non rivederlo mai più. Ma una piccola parte di me lo desiderava ardentemente, tanto che a volte mi pareva di scorgerlo camminare sul marciapiede, o nel corridoio, a scuola, e quella piccola parte cominciava a riscaldarsi, e il cuore a pompare furiosamente il sangue verso le mie guance. Fino a quel momento tutte le sue pseudo-apparizioni sono state seguite da un’amara delusione. Nessuno era lui. Nessuno poteva minimamente essere anche solo simile a uno come lui.

Avvicinai la tazza alle labbra, e presi un sorso di cioccolata. Gemetti, la lingua in fiamme, ma continuai a bere, abituandomi al bollore. Mi alzai lentamente dal letto, avevo bisogno di un po’ d’aria fresca. Appoggiai la tazza sulla scrivania, e, aperti i vetri, mi sporsi dalla finestra, ancorandomi al davanzale. Venni avvolta da una folata di vento freddo. Assaporai il sapore di pioggia che portava, mischiato agli odori della città. Il fumo, l’asfalto, il cemento, le persone… la cannella.

Quasi mi strozzai con la mia stessa saliva. Inspirai più bruscamente, il cuore che batteva all’impazzata, nella speranza che tutto fosse reale. Era sparito. Era stata solo un allucinazione. È ovunque, pensai amaramente, eppure da nessuna parte.

-Jennifer, che cosa stai facendo? Ti farai male!

Mi voltai, reprimendo l’impulso di alzare gli occhi al cielo. Mia madre mi fissava con uno sguardo severo, le sopracciglia aggrottate a formare rughe di preoccupazione.

Sospirai. –Non ti preoccupare, mamma. Stavo solo prendendo una boccata d’aria. Calmati.

La sua fronte si distese, i muscoli si rilassarono. –Mi sono spaventata. Entro, e ti trovo quasi di sotto. Comunque volevo solo dirti che sei richiesta in salotto.

Annuii, e la seguii nel soggiorno. Vidi una figura slanciata osservare la mensola sopra il camino, dove c’erano tutte le foto di famiglia. Era una donna dai capelli castano chiaro e lunghi fino alla vita, portava dei pantaloni attillati e chiari, che le fasciavano perfettamente le gambe lunghe e perfette. Quando si girò, osservai i suoi occhi grigi come la pioggia scrutarmi attentamente. Gabrielle strinse lo sguardo, poi le labbra rosa si distesero in un dolce sorriso. In tre passi mi raggiunse, e mi avvolse in un abbraccio caldo e affettuoso.

Non sapevo che fare, mi sentivo a disagio, ero rigida e avevo lasciato le braccia lungo ai fianchi, non trovando un modo adatto per reagire a quella dimostrazione di amicizia. Quando si staccò, barcollai un secondo. –Cosa ci fai qui?- balbettai.

L’angelo mi guardò con evidente tristezza nello sguardo. –Dobbiamo assolutamente trovare la Chiave. Lucifero si sta facendo sempre più forte, ho continue visioni, e Daniel non sta bene per niente…

-Cosa?!- la interruppi, attonita.

Gabbie sospirò. –Sta male. Non tanto fisicamente, quando mentalmente. Non dice nulla, non esce mai dalla sua stanza. Le poche volte che riesco a entrare per portargli da mangiare, è seduto sul letto, e fissa il cuscino. È inquietante…

È colpa mia. Non avrei dovuto dirgli quelle cose, non avrei dovuto fargli sapere cosa provavo. No, aspetta… perché dovrebbe essere colpa mia? Io non ho fatto nulla di male! La mia mente si divise in due: quella piangente e gemente e quella scontrosa e arrabbiata. Effettivamente, però, io non gli avevo fatto nulla che avrebbe potuto nuocere alla sua salute mentale. Quindi perché era così… strano?

Nephilim ~ la PresceltaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora