3.

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“Jennifer”.

Ho la vista appannata, come una patina opaca che si posa sugli occhi, sfocando la visuale. “Jennifer!” Mi giro attorno, sbatto le palpebre, e a poco a poco il paesaggio si fa più nitido. Alberi. Centinaia di alberi immensi, secolari, eterei. La voce sembra provenire da uno di essi, davanti a me. Voglio andare verso la voce, sapere chi è che mi chiama, ma i piedi sembrano incollati al suolo, coperto da aghi di pino, foglie secche e terra smossa. I colori si fanno più sgargianti, bruciano la retina, mi accecano. Guardo altrove, ma gli alberi sono spariti. Ora non vedo altro che contorni oscuri di sagome indistinte, che si fanno sempre più grandi, mentre qualcosa di viscido mi avvolge le gambe, il ventre, il petto, arrivando al collo. “Jennifer, guardami”. Voglio dirglielo, dirgli che non posso, ma il liquido viscoso mi serra il petto, stringendomi i polmoni, impedendomi di respirare e parlare.

Rialzo lo sguardo, e l’oro mi abbaglia: Daniel. È bellissimo, con dei jeans che scendono morbidi avvolgendogli le gambe scattanti, la camicia semplice che mette in risalto i muscoli perfetti e le braccia flessuose, i capelli dorati dietro le orecchie, un ricciolo ribelle che ricade sulla fronte, dandogli quell’aria sexy che fa svenire. Le ali sono ripiegate sulla schiena, quasi invisibili ma presenti, mandano bagliori soffusi bianchi e bronzei.

“Afferra la mia mano”. La sua voce è come nella realtà, forse più musicale e gentile. Cerco di liberare il braccio per potermi aggrappare al suo, proteso verso di me. La melma nerastra mi è arrivata al mento, serro le labbra per non averla in bocca. Mi divincolo, ma è sempre peggio. La mano di Daniel rimane lì, un appiglio sicuro ma irraggiungibile, mentre le tenebre arrivano agli occhi, opprimendo la vista, soffocandomi.

Boccheggiai, come se stessi riemergendo da una piscina dopo trenta secondi di immersione, in ricerca di ossigeno. Ingoiai qualcosa di denso e viscoso. Andai di corsa in bagno a vomitare quella roba. In preda ai conati, con gli occhi lacrimanti, mi accorsi che era il muco nero che mi aveva trascinato giù come sabbie mobili nel sogno.

-O mio Dio- mormorai sconvolta. –Non è possibile.

Starnutii nero. Alzai le mani, in preda al delirio: completamente ricoperte di fango nerastro. Piansi dolore, rabbia, frustrazione e desolazione sommessamente. Andai al grande specchio rettangolare che ricopriva tutta la parete. Quella riflessa era una persona completamente ricoperta di liquido nero appiccicoso, dalla punta dei piedi a quelle dei capelli. Le lacrime, scendendo, avevano trascinato con loro un pochino di melma, lasciando due righe più chiare sulle guance luride. Ebbi ancora qualche conato.

Entrai nella doccia, e cercai di ripulirmi più in fretta possibile sotto il getto di acqua calda. Dopo aver consumato circa cinque litri di sapone, riuscii finalmente a scorgere la pelle arrossata dagli sfregamenti. Finita la doccia, ripulii tutto il casino che avevo fatto, lanciando smorfie disgustate alla fanghiglia e borbottando imprecazioni. Quando finii, il bagno era come prima: tutti i ricordi del sogno ripuliti da uno straccio. In quel momento entrò mia madre.

-Jennifer, che ci fai sdraiata per terra? Sono le sette e mezza.

Oh, merda. –Niente, ma’, pulivo un po’... mi sono fatta una doccia, e l’acqua è uscita, e sai, non volevo che scivolassi…- Ero pessima nel raccontare balle, ma se la bevve.

-Oh, beh, gentile da parte tua- disse mamma con uno sguardo leggermente imbarazzato. –Ma ti conviene sbrigarti- prese un cipiglio severo, -Laura sarà qui tra un quarto d’ora.

-Certo.- Le diedi un rapido bacio sulla guancia, e raggiunsi camera mia incespicando, ancora stordita.

Stavolta riuscii a farmi trovare fuori perfettamente a posto prima che arrivasse Laura.

Nephilim ~ la PresceltaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora