Mi fiondai al supermercato e buttai nel carrello tutto quello che poteva servirmi per preparare il sushi più casereccio e amorevole che si fosse mai visto nell'algida dimora dei miei genitori, che avrebbero ordinato giapponese direttamente dall'Estremo Oriente pur di non rischiare di familiarizzare con i fornelli.
Io non ero mai stato quel genere di bambino dalla vena artistica che pasticcia con il pongo, si infarina tutto nel maldestro tentativo di formare dei biscotti con la mamma o si impiastriccia le dita con tempere colorate cercando di pitturare allegramente la propria casa. Non c'era niente di allegro nella mia casa, men che meno nei suoi abitanti: solo fredde mura bianche con camino incastonato nella pietra e lucido parquet color ebano su cui nemmeno i tacchi rabbiosi di mia madre erano mai riusciti a incidere qualche segno. Quadri anonimi di arte astratta tappezzavano casualmente le mura, per celare quanto fossero spoglie le anime che vi soggiornavano, mobili austeri e colori neutri completavano un arredamento degno dell'austerità della signorina Rottenmeier in Heidi... Non a caso, avevo salvato proprio con quell'appellativo il numero di mia madre sul cellulare.
Quando tornavo a casa da Harvard, mi sentivo in una residenza appena un pelo meno informale di un albergo: mancavano giusto le targhette con i numeri alle porte delle camere e le divise coordinate per tutti i dipendenti affaccendati a pulire mensole mai guardate, tagliare l'erba di giardini mai calpestati e preparare pasti mai consumati con calore. Sperare che i miei genitori avrebbero atteso il mio ritorno con trepidanza, pronti ad abbracciarmi e a dirmi quanto ero mancato loro sarebbe stato equivalente a praticare dell'autolesionismo psicologico ma accompagnato da un dolore fisico atroce. Dopo una prima, devastante esperienza di quel tipo, mi ero imposto di ricordarmi sempre che avevano riunioni di lavoro fondamentali a cui partecipare e che, benché io contassi seriamente ben poco in confronto al loro impiego, non fosse quella la motivazione per cui venivo avvolto dal gelo entrando in casa, nel silenzio più totale.
Stranamente, posai le borse della spesa con il rumore dell'aspirapolvere in sottofondo e, poco dopo, vidi comparire mia madre in tutto il fascino del suo tailleur su misura e piega fresca di parrucchiere.
«Oh, ciao Peter. Sei andato a fare la spesa?» si accigliò immediatamente.
Ci scambiammo due baci formali. Non sia mai azzardare un abbraccio, potrebbe cascare il soffitto, pensai.
«Sì, preparo il pranzo per Maddie» tagliai corto.
«Ah. Effettivamente, è un po' che non si vede Madison da queste parti. Comunque, potevi chiedere a Petra di andare a prendere quel che ti serviva, è pagata anche per questo».
Inspirai a fondo.
«La distanza non è una passeggiata, volevo fare qualcosa... Va be', grazie per il suggerimento».
Lo scetticismo di mia madre mi faceva passare la voglia di raccontarle e condividere con lei quel che mi stava accadendo, perciò planavo spesso e volentieri su una fredda chiusura di cortesia, come piaceva tanto a lei.
Soddisfatta per il riconoscimento ricevuto, sollevò un angolo delle labbra in un lieve sorriso (ad ampliarlo troppo, sarebbe stata rimproverata dal chirurgo, probabilmente) e si volatilizzò. Meglio così, sospirai.
Mi armai di pazienza e cominciai a seguire la cottura del riso, quindi mi occupai di preparare la tempura e di cuocere il pesce. Maddie andava matta per i crostacei, quindi abbondai di gamberetti, scampi e mazzancolle e aggiunsi, a parte, un astice cotta a vapore col suo brodo. Sorvolai sull'occhiata compiaciuta di mia madre al notare che avevo effettivamente chiesto aiuto a Petra, la nostra aiutante tuttofare, ma soprattutto esperta in cucina: pulire e cuocere l'astice era di gran lunga fuori dalle mie sole capacità.
Rimisi quindi in moto l'auto e avvisai Maddie, che aveva l'abitudine di essere in ritardo: stranamente, la trovai invece già fuori di casa. Che non vedesse l'ora di giudicarmi e bocciarmi? Inspirai a fondo.
Prima che lo facesse da sé, corsi ad aprirle la portiera della macchina e, con l'occasione, le stampai un bacio deciso sulle labbra.
«Allora? Sei pronta all'estasi del tuo palato? Tieniti forte» la accolsi, allegro.
«Così sicuro di te? Interessante...» fece Maddie, sorridendo lievemente.
Percepivo la sua convinzione scarsa con chiarezza, ma ero deciso a dimostrarle che volevo dare il centoventi per cento e così avrei fatto. Di certo non mi sarei potuto aspettare un'accoglienza affabile.
Mia madre era già uscita di casa quando rientrai insieme a Maddie e mi stupii che avesse lasciato un post-it attaccato al frigo, indicando che le sue compagne di yoga l'avevano incastrata per pranzo con la scusa di provare un nuovo ristorantino vegano a New York. Non sarebbe mai riemersa in tempo per salutare Maddie, ne ero certo, ma non che ci tenessi un granché. Quantomeno, avrebbe evitato di farmi notare che la mia relazione non sembrava stabile neanche a lei, che ne sapeva poco e niente.
«Per chi è tutto questo cibo, scusa?» fece Maddie, girando per la cucina con aria timida.
«Per noi. Principalmente, per te. Spero che ti piaccia... Mi ci sono impegnato» spiegai, con voce bassa e tenera.
La abbracciai dai fianchi, quindi le presi i polsi e le consegnai in mano il mio cellulare, così che scegliesse la musica da far emettere alle casse collegate. Il suo cuore si fermò per un attimo al gesto, poi cercò gli Imagine Dragons e fece partire la playlist generica delle loro canzoni.
Posato il cellulare sul tavolo, la guidai lungo il bancone costellato di piattini e vassoi, cui faceva capo la postazione della salsa di soia al centro: con questo escamotage, mi fu semplice sfruttare la musica si sottofondo per farla ballare, roteando da un assaggio con le bacchette di legno alla ciotolina in cui l'avrebbe intinto di salsa, per poi masticare a bocca piena quando la riprendevano le mie braccia pronte.
La playlist riprodusse quindi Demons. Sollevai il coperchio dell'astice e lasciai che Maddie stessa se ne accorgesse e la assaggiasse, odorandone il profumo, pregustandone il sapore. Mi lanciò un'occhiata incerta, a cui risposi con un cenno tranquillo.
«Questa sì che è paradisiaca... Complimenti» sussurrò, gemendo di piacere.
Sorrisi, guardandola negli occhi.
Le presi le mani tra le mie e canticchiai insieme a Dan Reynolds:
«Your eyes, they shine so bright, I wanna save that light
I can't escape this now, unless you show me how»Maddie abbassò le palpebre, lasciando che la melodia cullasse i suoi pensieri per un istante.
Scosse il capo. Le casse intonarono Bad Liar.
«No, non puoi uscire dalla situazione scomoda in cui ci troviamo, ma siamo in due, se ci rifletti bene. Non farmi pentire di averci creduto abbastanza da perdonarti».
I don't wanna fake it
Wish I could erase it
Make your heart believe__________
Eccoci alla fine di un capitolo dolce, dal retrogusto amaro. Che ne pensate? Che fine faranno i nostri protagonisti?
Al prossimo capitolo!!
Baci ✨
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Enigmatic
Teen FictionNessuna giacca di pelle, nessuna moto, nessuna sigaretta. Peter era il bravo ragazzo per eccellenza, con una facciata di marmo davanti e il fascino dipinto negli occhi. Pronto a frantumare qualsivoglia speranza di mantenere intatto il tuo cuore. E l...