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La piccola Punto scassata stonava nel traffico di Milano come un fulmine a ciel sereno.
Giovanni svoltò in via Calatafimi con un gesto secco, infilandosi nel marasma di automobili dirette verso l'autodromo di Monza.                
Non gli era mai piaciuta Milano, aveva quel fascino prepotente che lo opprimeva. Preferiva di gran lunga la sua piccola casa nella periferia di Roma, quel buco pieno di muffa dove sua madre lo attendeva amorevole.
Si fermò a un semaforo rosso e tirò fuori la bottiglietta d'acqua da sotto il sedile. Ne rimaneva un goccio, ormai. Aprì il tappo di plastica sbuffando appena, ma una mano piena di anelli gliela tolse con uno strattone.
Lanciò un'occhiata furente a Paolo, suo compagno di sventure dai tempi remoti delle elementari, di quando attaccavano le cingomme sotto al banco senza farsi vedere dalla maestra.
«Pà, ma sei coglione?»
Si scolò tutta la Sant'Anna in un sorso, poi si pulì con la mano coperta d'inchiostro. «Eddaje Giovà, muovi un po' sto catorcio.»
Giovanni alzò gli occhi al cielo passandosi la mano sui jeans strappati, attaccati alla pelle. Ottima idea indossare pantaloni neri a giugno, pensò sarcastico. È solo che quando aveva frugato un po’ a casaccio nei cassetti, com’era suo solito fare, non aveva trovato nient’altro da mettersi.
Il semaforo diventò verde e la Punto sgassò con un po' di fatica immergendosi fra i marciapiedi puliti di quel primo pomeriggio afoso. Lisciò un'Audi fiammante nella corsia accanto e Paolo, con la sua indole non eccessivamente pacata, abbassò il finestrino verso il bolide mostrando il dito medio scintillante.
«Ma datte foco!» berciò aggrottando le sopracciglia castane.
«Ottimo», sbuffò l'altro cercando il telefono nell'anta del cruscotto. «Adesso finiremo in galera.»
«In galera ce deve annà sì, ma la gente che'n sa chi siano i Van Halen» biascicò Paolo schiacciando pulsanti a raffica sulla radio, fino a quando Smoke on the water non si irradiò nell'abitacolo.
Giovanni sorrise soddisfatto, dimenticandosi dell'inconveniente di poco prima, e si passò una mano sui ciuffi incredibilmente lisci e scuri. Quand'era piccolo sua madre gli diceva sempre che se mai fossero piovuti bottoni dal cielo si sarebbero infilati tutti tra i suoi capelli.
Rimasero in silenzio per un po', le ginocchia che rimbalzavano su e giù a tempo dei Deep Purple.
Era la loro vita, la musica. Un qualcosa che non avrebbero potuto abbandonare perché era parte di loro in tutto e per tutto.
Giovanni capì di appartenere alla musica quando trovò suo padre nel garage, intento a sistemargli la bici, cinque anni prima. Aveva fischiettato con fare distratto Another brick in the wall con lo straccio da cucina sulla spalla e la canottiera bianca da cui si intravedevano strisce di sudore.
Ed eccola.
La scintilla.
«Che canzone è?» gli chiese il ragazzo, ancora ingenuo per via delle prime esperienze alle superiori.
Suo padre lo osservò da sopra la spalla con un sorrisetto, la sigaretta tra le labbra vibrava tutto il suo divertimento.
«Giò, sta musica è storia.»
E fu così che gli fece ascoltare i pilastri, i grandi maestri.
Passarono tutta la notte dentro quel garage a ridere, ad ascoltare quelle note e quelle voci del passato che in realtà non passavano mai. Fu quasi una magia stare le ore lì con la schiena ingobbita sul piano da lavoro unto e le orecchie tese fino a fare quasi male.
Giovanni, durante una notte bollente del 2005 che squagliava i palazzi e scuoteva l’erba nascosta nell’asfalto, capì quale fosse il suo mondo: la musica era diventata vitale per lui. A volte, da quant’era preso dalle voci graffianti che uscivano dalle casse, non si accorgeva di sua madre che lo chiamava disperata dalla cucina, la puttanesca ancora calda nel tegame che teneva su a fatica fra le braccia.
«'A Giovà!», latrava con la sua voce rauca per le decine di sigarette al giorno che consumava, «Spegni un po' sta roba che c'è da magnà!»
Ma lui continuava a stare incollato lì, con l’anima e le orecchie. Perciò, a quel punto, la povera Ivana era costretta a sbattere i palmi grassocci sulla porta chiusa per risvegliare
il figlio dallo stato di trance.
Dal cruscotto della Punto ereditata da suo padre fuoriuscì un rumore sgradevole e Giovanni si ritrovò ad alzare ancora di più il volume per non farci caso, ormai era davvero un’auto troppo vecchia per portare due giovani scalmanati pronti per una serata di urla e salti a tempo di musica.
L’ultima strofa della canzone dei Deep Purple lasciò spazio a un silenzio caldo e tranquillo, dal finestrino entravano folate di vento rovente che schiaffeggiavano dolcemente le guance di Giovanni.
Tra un semaforo e l’altro i marciapiedi erano semideserti, c’erano soltanto donne anziane con buste della spesa che pendevano dai polsi come orecchini pesanti e ragazzini qua e là che si rincorrevano. Era quasi lo stesso teatrino che trovava sotto casa sua tutti i pomeriggi, solo che laggiù, nelle periferie di Roma, le persone ciondolavano con fare sospetto e s’apprestavano a guardarsi le spalle più del dovuto. D’altronde, viveva nel quartiere delle case popolari, e chi vive nel quartiere delle case popolari ha un parente invalido o parecchie precedenze penali, questo lo sapevano bene tutti. Giovanni, fortunatamente o sfortunatamente, si era ritrovato lì a causa della prima opzione.
«Eccoci, eccoci!» Paolo sbatté gli anelli sul cruscotto, pervaso da un’ondata di eccitazione. «Dai Giovà, parcheggia!»
Un grande spiazzo incorniciato da una rete di ferro si parò davanti a loro e Giovanni dovette rallentare. Sull’erba secca erano state disegnate malamente strisce bianche verticali e orizzontali, centinaia di macchine avevano già preso i posti sotto agli alberi e vicino ai cespugli, perciò ai due toccò posteggiare al centro, nella fila C.
Spenta l’auto e messa la sicura, Paolo e Giovanni tastarono con i piedi il terreno, la schiena un po’ acciaccata e le gambe tremanti.
Erano a Milano, esattamente a 574 Km da casa, con due panini schiacciati sul fondo degli zaini, senza acqua e senza un cappello a ripararli dal sole. Eppure, chiunque avesse potuto vederli, avrebbe detto che quei ragazzi vestiti di nero e ricoperti di sudore fossero felici.
Lo notò soprattutto una ragazza dai capelli rabbuffati e le clavicole sporgenti che aveva appena parcheggiato il suo Volkswagen T2 nella fila D. Oltre la tesa del cappellino da ciclista osservava con avida curiosità entrambi, per soffermarsi poi su quello più magro e slanciato. Portava pantaloni così stretti e lucidi che risaltavano tra la folla facendolo apparire come un piccolo pannello solare, e dei capelli talmente dritti che sembravano finti. Un tipo davvero strano pensò lei. Forse non aveva ancora superato il periodo ribelle tipico dell’adolescenza? Oppure era soltanto una forma di eccentricità male assortita?
Non se lo spiegava, ma quelle spalle leggermente curve e lo sguardo docile le davano tutta un’altra sensazione.
Giovanni, a pochi passi di distanza da quella ragazza, si sentiva acceso e potente. Aveva ficcato la mano nello zaino e racimolato qualche spicciolo per comprarsi un paio di bottigliette, aveva respirato l’aria umida di quella città che con lui stonava troppo, e aveva sorriso fino a farsi male alle guance. Non gli importava di niente, adesso, se non della sua musica.
Le nuvole vaporose sparse nel cielo assisterono agli abbracci un po’ goffi di Paolo mentre oltrepassava l’entrata dell’autodromo insieme all’altro: si sentivano i forti rombi delle auto da corsa e lo stridio degli pneumatici sull’asfalto. Trattenendo il fiato, i due si incastrarono in una fila di persone stravaganti e bizzarre, e Giovanni passò il tempo a immaginare le possibili migliaia di vite e situazioni che scorrevano intorno a lui: probabilmente la ragazza dai capelli blu e il viso tempestato dai piercing aveva avuto una relazione burrascosa con i genitori che le aveva suggerito un’immagine distorta di sé, o forse era stata tradita dal fidanzato storico delle superiori e, non riuscendo ad accettare la ferita narcisistica, si era chiusa in un lungo mutismo per poi disegnarsi un volto diverso.
Chissà.
La coda scorreva lentamente, l’attesa era snervante; Paolo aveva la fronte imperlata di sudore e sotto i suoi capelli biondi rasati a zero si poteva intravedere la cute scottata. Le magliette che portavano addosso si erano attaccate alla schiena in una stretta fastidiosa, i sospiri si facevano sempre più intensi man mano che si avvicinavano all’enorme campo vuoto.
Poi, finalmente, l’attesa terminò.
Ci fu un istante di sguardi, un battito di cuore, e una risata.
E si ritrovarono dentro.
Giovanni iniziò a correre con il ronzio dei motori nelle orecchie e le guance rosse, le Converse si tinsero subito di una tonalità beige per la terra finissima che calpestava e i pantaloni gli avrebbero sicuramente lasciato un’irritazione fastidiosa fra le cosce, ma non ci pensò su troppo.
Era davvero al suo primo concerto, al concerto dei Linkin Park, con il suo migliore amico d’infanzia?
Fece lentamente un giro su se stesso, talloni piantati, come se stesse scattando una foto panoramica con gli occhi.
Vide Paolo con l’ennesima sigaretta del giorno fra le labbra sottili e compiaciute.
Osservò il cielo limpido che gli sorrideva e le nuvole che galoppavano come grandi perle sfocate.
Notò la ragazza dai capelli blu farsi spazio tra la folla per prendere il posto più vicino al palco e arrampicarsi sulle transenne, nella speranza di poter sfiorare la mano di Chester Bennington.
E poi la gente, le grida, le canzoni rock che uscivano prepotenti dalle casse, il grumo di saliva sotto la lingua, il cuore a mille.
E infine, in mezzo a tutto questo, c’era lui.
«Bello eh?», Paolo buttò la sigaretta in terra distrattamente, aveva lo sguardo fisso sul groviglio di persone accalcate alle sbarre di metallo. «Ti va di andare là in mezzo? Laggiù sì che ce menamo.»
Si incunearono tra mille schiene sudate e occhiatacce, i gomiti larghi e le mascelle serrate, pronti ad aggiudicarsi la postazione migliore in attesa dell’evento che avrebbe cambiato le loro vite per sempre.
A suo padre non erano mai piaciuti, i Linkin Park, li trovava troppo “rumorosi”. D’altronde, Fabrizio era tremendamente affezionato allo stile vecchia scuola e non concepiva la possibilità che qualcuno, oltre a cantare, potesse anche urlare. Quello che Giovanni chiamava screaming, lui lo definiva un’accozzaglia di strilli impazziti.
Sorrise ricordando i tratti del volto di suo padre, le sopracciglia dritte e folte, i grossi baffi a coprire quasi metà bocca, e lo stereo sempre acceso nel suo garage.

Il tempo di una sigarettaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora