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Di giorno, il centro storico di Marina Grande si poteva descrivere come una piccola piazza gremita di ragazzini che giocavano a pallone fra i banchi di pesce. Di notte, invece, tutto si trasformava.
I banchi venivano sostituiti da file di sedie in plastica e, lì dove i bambini disegnavano sull’asfalto col gesso, era stata allestita una pista da ballo circolare che poggiava su travi di quercia. Gli alberi che regalavano ombra alle panchine adesso erano addobbati con luci bianche avviluppate ai rami.
Giovanni vide la semplicità di quel posto e ne rimase ancora più affascinato.
La pista da ballo era già occupata da qualche coppia di anziani e una banda di ragazzini che si divertiva facendo strani movimenti e prendendosi in giro a vicenda. Da un Jukebox degli anni 50 usciva un pezzo di Elvis che aveva sentito passare alla radio qualche volta. Sembrava di essere dentro una cartolina, o in uno di quei film in bianco e nero con il lieto fine.
Giovanni prese Adele per la vita e la strinse a sé, trasformandosi presto in un vortice di sospiri.
E così, quella notte del sette luglio, iniziarono a danzare.       
Le loro gambe s’infilarono nella ragnatela della piazza che ridondava di sorrisi di bambini intenti a rincorrere la felicità, e di vecchi che la osservavano malinconicamente, lasciandole la mano.
Tutto era come doveva essere, tranne che per Giovanni.
Lui, probabilmente, era l’unico ad assaporare quella dolcezza, quegli occhi scuri che tanto le ricordavano le foglie di una quercia, quelle labbra socchiuse… Erano illuminate dalle lanterne sbieche sopra di loro, le davano un tocco di ciliegio.
Danzarono sotto le stelle.
La musica continuava, tamburellava nell’orecchio del ragazzo innamorato della donna davanti a lui che muoveva i fianchi leggeri con spensieratezza, alzando di poco la gonna larga e consumata. Il fermacapelli non c’era più, forse una timida ragazza l’aveva raccattato dalla pista prima che qualcuno potesse romperlo e poi, poi si sarebbe fatta una treccia con le sue dita docili e le unghie curate ma non troppo.
La testa di Adele era diventata un grande ammasso di capelli, avvolgevano la notte con la grinta di chi ha ancora tanto da assaporare, con la grinta di chi guarda meschino il futuro e gli rivolge un sorriso caldo, da birbante. Aveva dentro di sé un’energia che Giovanni non aveva percepito in nessun altro, gli ricordava le cascate del Niagara che aveva visto da piccolo alla tv, così monumentali e grandiose.
Danzarono ancora.
Pure quando i ragazzini del quartiere avevano smesso di rincorrersi, e la signora grassa con la sciatica e le labbra all’ingiù aveva chiuso il bar all’angolo della piazza. Pure quando l’uomo calvo che prima aveva danzato con sua moglie al lato sinistro della pista se ne stava seduto su una panchina con un Merlot ad insozzargli l’animo.
E poi tutte le donne si erano messe ad impilare una sedia di plastica sopra l’altra, avevano urlato il nome dei loro mariti con la bocca storta e la mano sulla guancia, sospingendoli a sbaraccare tutto. Una madre senza anello vagò per la piazza cantando una ninna nanna al neonato sul suo petto che piangeva. In realtà non aveva sonno, ma solo una tremenda fame. Ma questo, lei, non lo sapeva.
E Giovanni, in tutto questo, si accorse solo della bellezza della sua Adele. Quel nome ormai gli calzava a pennello sulla lingua e sui pensieri.
Come poteva essergli successo questo? A lui, che per giunta non ci aveva neanche mai fatto caso all’amore, lo aveva sempre sfiorato senza toccarlo mai davvero. Anche quando le ragazze gli chiedevano di andare al cinema davanti scuola, e la radio nel suo garage gli rimbombava nelle orecchie.
Continuarono a danzare sotto le luci calde incastrate fra i rami che parevano sempre più vicine sotto le loro teste perse nell’oblio della vita.
E Adele si sentì proprio come un albero, dalle sue scarpe sbucarono radici e dalle sue crepe piccoli rami che si allungarono verso il cielo e l’ignoto. Dai suoi capelli uscirono fuori degli steli alti e robusti, e quando arrivarono a toccare le stelle, sbocciarono mille fiori.
Stava guarendo, lo sentiva.
Poteva rinascere, diventare terra fertile per crescere di nuovo.
Per sorridere come non aveva mai fatto.
Per correre in un campo di tulipani e dire di sentirsi più viva che mai.
Per buttarsi da una scogliera con l’aria a mangiarle la pelle.
Per abbracciare di nuovo la sua mamma.
Per riuscire a perdonare suo padre.
Per lasciar andare la parte di sé che nascondeva, perché nessuno deve mai nascondersi, nessuno deve mai sentirsi sbagliato, non amato, fuori posto, o di meritare il dolore che sta provando, perché ognuno è bellissimo, uno scrigno con mille vite mai vissute e centinaia di meraviglie che fanno battere il cuore.
Il solo sentirti vivo, ti rende unico.
Perciò vivi, si disse Adele, vivi e non pensare a niente.
Allora, in quella piazza avvolta dal silenzio, aprì gli occhi.
C’era Giovanni, lì a tenerla, che la guardava.
Non si era mai accorto di come le sue labbra, quando sorridevano, formavano una piccola piega al lato sinistro della guancia, e nemmeno della macchiolina dorata sotto la sua pupilla destra. Tutto quel tempo a osservarla, e si era lasciato sfuggire dei dettagli così importanti. Si sentì stupido. E anche un po’ idiota.
Appena tutte le luci si spensero corsero via, fra le pietre dei vicoli e le orchidee colorate che pendevano dai vasi sui terrazzi, i muscoli tesi e i piedi che battevano sull’asfalto. Arrivarono a casa di Giustina poco prima di mezzanotte, dalla finestra dell’abitazione accanto si poteva scorgere una commedia americana registrata in tv. Fecero attenzione a non fare alcun rumore, trattennero il fiato da quando aprirono il portone a quando chiusero la porta della loro stanza.
Le lenzuola celesti dei letti spiccavano alla luce della luna, sui comodini c’era un leggero strato di polvere e sui muri c’era qualche buco, segno che alcuni quadri, forse foto d’infanzia, erano stati tolti. In compenso, le federe erano ricamate in una piacevole accozzaglia di seta e lana, il fruscio dei loro capelli a contatto rimbalzò fra le pareti.
Adele si nascose sotto il lenzuolo dopo aver fatto scivolare il vestito sul pavimento, strinse le ginocchia al petto e iniziò ad ascoltare i respiri di Giovanni.
Iniziava a vederlo in modo diverso, ormai. Come se non lo avesse incontrato a un concerto di un gruppo metal, ma in una vita passata di secoli prima. Forse in un bar di Parigi, o in una galleria d’arte in Scozia. Magari avevano iniziato a fare conversazione per poi rincorrersi fra le strade di Amsterdam o i canali di Venezia e perdersi per anni, cercarsi, ritrovarsi, sfiorarsi, e lasciarsi andare.
E se si fossero persi di nuovo, lui l’avrebbe ritrovata?
Strinse le labbra e si alzò, i suoi passi erano un ticchettio sordo nel buio.
«Posso restare?» chiese lei con un sospiro.
Giovanni annuì, aveva le palpebre cadenti e il petto olivastro tagliato dalla luna.   
«E che me lo chiedi?» biascicò, prendendole una mano. La sua voce, poi, si ridusse a un rumore sommesso. «È una vita che t'aspetto.»

Il tempo di una sigarettaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora