Via Roma era un miscuglio di negozi, luci e racconti.
Un signore sulla settantina suonava la fisarmonica su una manciata di mattonelle grigie e sbeccate, stava seduto su una sedia in legno con tre gambe, la schiena ricurva e la barba incolta. L’orologio da taschino che gli penzolava dalla tasca dei jeans era rimasto con le lancette ferme al tre gennaio dell’85, il giorno in cui sua moglie disse di amarlo per l’ultima volta. Ora lo faceva soltanto attraverso una lastra di marmo.
Il suo tempo non scorreva, ma lo facevano le sue note, squarci di sofferenza in mezzo a tanti attimi di gioia, in mezzo a tante vite che, invece, avevano smesso di contare le lancette.
Adele e Giovanni ciondolavano in quel viottolo come vittime di un sogno, sembravano due innamorati con quei sorrisi leggeri e quelle dita intrecciate.
Aveva proprio ragione lo zio Franco, Follonica non era per niente come se l’era immaginata, ma le descrizioni dettagliate che gli forniva sempre calzavano a pennello con ciò che vedeva: c’erano le luci che pendevano dal cielo come stelle cadenti, c’era il testo di Heart-Shaped Box inciso sul muro del palazzo giallo canarino sulla sinistra, c’era il cinema all’aperto avvolto dall’edera e la biblioteca con le finestre in stile medievale.
Era un libro che non aveva mai letto ma di cui si trovava protagonista inconsapevolmente.
Adele camminava silenziosa, sbatteva le ciglia ogni tanto, quando la realtà le sfuggiva via dallo sguardo. Aveva bisogno di spazio per pensare, Giovanni lo capì dal modo in cui il suo braccio libero restava rigido lungo il fianco. Osservava le cose con un certo distacco, non le sfiorava nemmeno.
Fecero una lunga passeggiata tra i vicoli affollati fino a tornare sul lungomare, lui in attesa di sentire la voce di lei e lei in attesa di rifugiarsi di nuovo nel buio, per non farsi vedere da lui.
Quand’era piccola, Adele si nascondeva sempre sotto al lavabo della cucina, dentro a un piccolo mobile di legno degli anni Settanta che sua madre aveva ereditato da qualche parente alla lontana insieme a un servizio di piatti in argento e un vaso cinese.
Lo trovava divertente, nascondersi lì sotto, soprattutto quando a chiederglielo era sua madre.
Perché sua madre non era mai stata un tipo avvezzo ai giochi infantili, ma spesso, molte volte, la vedeva camminare nervosamente fra le mattonelle di ceramica della cucina con le unghie piantate nello strofinaccio. Poi le luci della macchina di suo padre le illuminavano il viso attraverso la finestra, e in un attimo la sua espressione diventava una lastra di vetro appannata. Abbracciava Adele con forza, le ordinava in modo giocoso di nascondersi sotto al letto o dentro a un mobile così che nessuno potesse trovarla, e lei obbediva, accecata dal disperato bisogno di compiacerla. Non aveva idea di cosa succedeva dopo, si infrattava con talmente tanto impegno che non sentiva alcun rumore, tutto era buio e lei poteva stare tranquilla, che prima o poi sua madre avrebbe scoperto il nascondiglio.
Adele si era nascosta per anni, aveva trasformato l’oscurità nella sua coperta preferita e l’odore di muffa in un profumo che sentiva addosso a chiunque tentasse di scovarla.
Era questo, lei. Una carcassa di sogni perduti.
Avrebbe dovuto accendere una luce fioca – probabilmente sarebbe bastata anche la luna – per poter cercare i resti di quel che era e ricostruirsi daccapo, avrebbe dovuto, ma non era ancora pronta.
Di notte poteva essere qualsiasi cosa lei desiderasse, ma di giorno non era altro che una ragazza estremamente delicata e fragile.
Una volta tornati nel parcheggio, Adele tirò fuori una sigaretta e l’accese prima che Giovanni cominciasse a fare domande. Aspirò la nicotina, si sedette sul bordo duro del retro dopo aver aperto le portiere, e schioccò la lingua sul palato.
«So che vuoi dirmi qualcosa.»
«Cosa dovrei dirti?», lui era rimasto in piedi, in imbarazzo. Stava iniziando a rimpiangere la magia che si era creata intorno a quei vicoli che avevano calpestato. «Cosa dovrei dirti, esattamente?»
«Hai molte domande che ti frullano in testa.»
«Sì, è vero. Ma non ho intenzione di fartele fino a quando non sarai in grado di darmi delle risposte.»
Il fumo che uscì dalle labbra di Adele era denso e bianco a contrasto col nero del cielo. Si dissolse all’istante, nello stesso momento in cui lei guardò Giovanni con un’espressione confusa. Sotto a quell’espressione confusa, però, si celava una richiesta di aiuto non indifferente, rimorso, rabbia e una massiccia dose di insicurezza.
Ma Giovanni non capì. Anzi, tornò a parlare quando non aveva ancora ripreso fiato.
«Ogni volta che faccio un passo verso di te, tu indietreggi. Cerco di farti capire che per me sei importante, e tu corri via. Come posso fidarmi di te se non riesci a fidarti di me?»
Quella domanda restò incastrata nelle orecchie di Adele per qualche minuto, si assopì sotto i raggi lunari con le parole di lui che continuavano a echeggiare fra le stelle.
A volte si pensa di aver incontrato la persona giusta al momento sbagliato, o la persona sbagliata al momento giusto.
Adele, invece, pensò soltanto di trovarsi in una vita sbagliata.
Non c’erano persone che potessero scavare fra le lenzuola e i vestiti per tirarla fuori dalla fossa che si era costruita, non c’erano persone che potessero allungare le braccia e afferrarla per farla uscire dal nascondiglio sotto al letto.
Doveva farlo lei da sola, perché Giovanni non l’avrebbe mai salvata.
Buttò la sigaretta in terra e la schiacciò, la suola scricchiolò sulla ghiaia. Col sapore di tabacco fra i denti prese le chiavi dalla tasca, aprì lo sportello e si sedette davanti al volante senza degnare Giovanni di uno sguardo.
Non mi farò addomesticare.
«Andiamo. Stanotte guido io.»
Lui la squadrò attraverso il finestrino, le labbra serrate e quel senso di disagio piantato ancora in mezzo alle spalle. Si avvicinò senza badare al rumore dei suoi respiri profondi, tanto ormai non aveva niente da perdere.
Il vetro che li separava sembrava un muro alto centinaia di metri, invalicabile e spaventosamente robusto.
Sarebbe mai riuscito lui, un ragazzo qualunque con una storia simile a migliaia di altre, a crepare quei mattoni tanto resistenti?
Sarebbe mai riuscito a non arrendersi?
Ad arrampicarsi senza cadere troppe volte, con la costante paura di perdere di nuovo una persona che amava?
Appoggiò la mano sul vetro, era freddo e sporco, il palmo si aggrappò alla polvere con un risucchio. Adele gli sembrava così lontana, in quel momento, distante come un ricordo sbiadito o una vecchia foto in bianco e nero. Teneva le dita strette al volante, lo sguardo basso e la schiena china. Si era accorta della presenza di Giovanni oltre il finestrino, ma non aveva il coraggio di alzare gli occhi e ammettere di essere un giocattolo rotto e scartato da troppe mani.
Doveva continuare a fuggire, in qualche modo.
E non appena lui decise di rannicchiarsi sul sedile e spegnere la mente, la radio gli giocò un brutto scherzo. Partì una delle sue canzoni preferite dei Placebo, Running Up That Hill. Il volume era basso, ma lui l’aveva riconosciuta subito.
Tell me, we both matters, don’t we?
Importavano entrambi?
Non aveva la benché minima idea. Forse, se fossero stati adulti, avrebbero potuto essere qualcosa, loro due insieme. Anche se l’idea di vedere Adele adulta lo spaventava un po’.
Let me steal this moment from you now,
C’mon angel, c’mon.
Adele lasciò che quel momento scorresse nelle mani di lui. Non voleva più saperne niente, non poteva. Guidava con lo sguardo fisso sull’arco d’asfalto illuminato dai fanali, sudava freddo e il vestito le si era appiccicato alla pelle. Voleva prendere a pugni il volante, graffiarsi le cosce con le unghie fino a far uscire il sangue e dire ad alta voce l’elenco di tutte le cose che l’avevano uccisa dentro.
Invece lanciò uno sguardo allo specchietto retrovisore, il suo riflesso era segnato da due profonde occhiaie e una lacrima rimasta incastrata fra le ciglia.
Come aveva fatto a ridursi in quel modo, non lo sapeva.
L’errore più grande, però, era stato permettere a quel dolore di plasmarla, di farla sua, le aveva scavato una voragine con gli artigli lasciando grosse ferite che facevano fatica a rimarginarsi, le aveva imbavagliato la bocca per farla stare in silenzio e continuare a giocare.
La notte, intanto, scomparve lentamente sotto i suoi occhi stanchi, gli alberi ripresero colore e il cielo perse – una ad una – tutte le stelle.
Giovanni si svegliò che i primi raggi di sole gli avevano investito il viso, fu come ritrovarsi bambino nel letto dei suoi, quando Ivana lo svegliava con tanti piccoli baci caldi sulle guance.
Raccattò il telefono che gli era caduto sotto il sedile mentre dormiva, lo schermo segnava un messaggio di Paolo e due chiamate perse da sua madre. Lasciò le chiamate in sospeso, non aveva voglia di parlare e sicuramente lei si sarebbe accorta subito che qualcosa gli stesse andando storto.
Il messaggio del suo migliore amico era breve e conciso, era stato scritto alle due di notte senza preavviso, senza una spiegazione logica.
Vivi, Giovà. Che non è mai troppo tardi per amare un cuore spezzato.
Tenne il cellulare a mezz’aria, un po’ perché aveva paura di rileggerlo e un po’ perché voleva sentirselo dire talmente tante volte da avvertire lo stomaco sottosopra.
Rimase immobile a fissare lo schermo, ormai di nuovo nero, e un’alba pronta a vestirsi.
Al di là del guardrail trovò un ammasso di onde spumeggianti e rosate per via del giorno appena cominciato, ma erano onde che aveva già visto prima, le aveva riconosciute dal modo particolare in cui si arricciavano sopra l’acqua.
«Quella è Ostia.»
Adele lo smicciò, fu un movimento così rapido che Giovanni non seppe dire con certezza se lo avesse guardato davvero. Portò di nuovo lo sguardo sulla strada e quando vide il cartello giusto, svoltò.

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Il tempo di una sigaretta
Romance«Tu potresti salvarmi» disse lui. Lei, con lo stomaco sottosopra e il labbro fra i denti, tentennò. Salite e discese, questo era il ritmo stancante della loro ingarbugliata relazione, di quell'amicizia improbabile, di quel gioco in cui vince chi è p...