6

6 0 0
                                    

Adele imboccò l’autostrada che il sole era calato oltre le colline, gli alberi avevano assunto un colore rossastro sulle punte. Il viso di lei era attraversato da un’ondata di stanchezza che la fece sbadigliare, le labbra screpolate le fecero male e ci passò sopra la lingua. Proprio lì accanto, Giovanni osservava il guardrail scorrere a gran velocità sotto i suoi occhi, una striscia grigia infinita che spezzava il cielo a metà.
Poi abbassò il volume della radio, stirò un po’ le gambe oltre il sedile. «Adoro i tramonti. Tu?»
Adele lo smicciò senza distogliere l’attenzione dai fanali che illuminavano la strada, aveva in bocca il sapore d’estate.
«Sì, ma solo perché sono fine.»
«Fine?»
«Indicano la fine di un giorno, di un amore estivo, di una vita non vissuta davvero. È la fine di molte cose, un tramonto.»
Giovanni aggrottò le sopracciglia, ma non aggiunse altro. Guardò la fila di macchine dietro di loro attraverso lo specchietto retrovisore e schioccò la lingua sul palato quando partì una nuova canzone, California dei Fog Lake.
Non la sentiva ancora.
Le note del piano e della chitarra si mescolarono alle prime stelle nel cielo creando una magia difficile da descrivere e da dimenticare, un momento di stallo che sembrava essere stato cucito da mani esperte, come una grande coperta di lana immobile nel tempo.
Giovanni non aveva mai visto dei tramonti così. O forse li aveva visti, ma non ci aveva mai fatto caso sul serio. Alzava spesso gli occhi, ma si fermava a osservare soltanto i gabbiani che raccattavano la spazzatura dai bidoni sotto casa sua, immaginando di guardare se stesso dall’alto, fermo sul marciapiede. Probabilmente era un pensiero stupido, ma Giovanni si era ritrovato spesso a creare nella sua mente scenari impossibili e chiedersi come avrebbe reagito se fossero accaduti davvero. Cosa avrebbe fatto se si fosse svegliato nel cielo, incastrato fra le nuvole? Avrebbe cercato di toccare le stelle o si sarebbe spaventato dell’estrema altezza, per poi cadere nel vuoto?
Era difficile per lui rimanere coi piedi per terra, glielo diceva sempre suo padre. Anche Fabrizio era un po’ come lui, ma aveva trasmesso a suo figlio la paura del fallimento, la paura di crollare se i sogni non fossero stati abbastanza solidi da reggerlo.
“Legati la caviglia con una corda, in questo modo potrai sognare senza farti male”, così gli diceva. Giovanni non ci aveva mai creduto, ma non gli piaceva discutere con suo padre, aveva il viso troppo buono per poterlo contraddire.
Eppure, si trovava sempre bloccato da quella corda.
Il tramonto finì come il lungo monologo interiore di Giovanni, sparendo sotto le strisce bianche sull’asfalto.
«Ti va di fermarti? Dovrebbe esserci un autogrill fra un chilometro.»
Adele gli aveva posto quella domanda senza neanche guardarlo, non si era accorta dello sguardo perso del ragazzo accanto a lei, i capelli lisci sulla fronte gli nascondevano gli occhi.
Giovanni annuì, tutte quelle emozioni durate un respiro sembravano averlo appassito lentamente: teneva le spalle curve e le braccia rilassate sulle gambe, coi palmi rivolti verso l’alto.
Quel distacco totale dal mondo finì non appena Adele spense il motore del camioncino nel retro del bar di una stazione di servizio sporca e quasi vuota. I muri di cemento erano stati coperti da centinaia di scritte e l’insegna a neon era accesa a tratti, all’interno si poteva scorgere la fila di tavoli e il pavimento mattonellato coperto d’unto.
Senza preoccuparsi minimamente dell’igiene di quel posto, Adele e Giovanni varcarono la soglia del bar e chiesero qualcosa da poter mettere sotto i denti. Una cameriera – l’unica in servizio da quanto capì Giovanni – li fece sedere al tavolo accanto alla vetrina e portò loro due cappuccini e qualche pasticcino ripieno al pistacchio.
La ragazza che lavorava in quel buco dimenticato da Dio era un soggetto interessante per Giovanni. Aveva una cesta di ricci neri che le cadevano pesanti sulle spalle larghe, quando lasciò sul tavolo il vassoio con i dolci notò che indossava un ciondolo con una croce appesa e le sue unghie erano molto corte, un po’ mangiucchiate. Aveva uno sguardo talmente eloquente dietro gli occhi color carbone che lui non si rese conto di fissarla già da qualche minuto.
«Perché la guardi così?» gli aveva chiesto Adele, si era sporta sul tavolo per osservare meglio la giovane cameriera. Tentava di scovare quei particolari che avevano attirato l’attenzione dell’altro, ma non ne trovò.
«Così come?»
«Come se celasse un segreto che non riesci a comprendere. Tu osservi tutti in quel modo.»
Giovanni puntò i gomiti sul tavolo, le sorrise, e sorseggiò il cappuccino. Sapeva di ruggine e latte. «Penso che ognuno di noi sia uno scrigno che contiene segreti. Ci sono scrigni più grandi, più piccoli, scrigni intagliati nel legno e scolpiti nel marmo, con lucchetti diversi o addirittura aperti. A me piace guardare le persone e capire che tipo di scrigno sono. Capito, no?»
«E… ci riesci con tutti?»
Nella domanda di Adele si nascondeva un tono leggermente impaurito, aveva conficcato le unghie nelle cosce lasciando segni rossi sulla pelle.
Giovanni aveva capito bene cosa volesse dire. Così decise di osare.
«Con te. Con te non ci riesco.»
Parve crearsi un alone di nebbia intorno al tavolo, tutto ciò che li circondava si fece sfocato, tanto che ormai era difficile prestarci attenzione. Come la prima notte che i loro occhi s’incontrarono, Adele sentì i battiti del cuore irrequieti nelle orecchie, i palmi sudati, il viso accaldato. Le luci delle macchine che sfrecciavano dall’altra parte del vetro si riflettevano sui suoi occhi lucidi. «Perché?»
«È difficile da spiegare», Giovanni accartocciò la fronte. Iniziò ad armeggiare con il cucchiaino dentro la bevanda calda, si specchiò un attimo nel metallo come ad accertarsi che fosse ancora lì, per poi abbandonarlo di nuovo nella tazza. «Mi è davvero difficile capire cosa nasconde il tuo sguardo, sembra una porta sbarrata da anni che ha perso la chiave della serratura. O forse sa dove si trova, ma non vuole dirlo per paura di cosa potrebbe trovare dall’altra parte.»
Adele sentì un colpo all’altezza dello stomaco e strinse i denti. Era rimasta in silenzio, forzata ad ascoltare l’eco delle parole di Giovanni che le rimbombavano in testa. Non seppe davvero dove aggrapparsi: quella volta, la musica non sarebbe bastata.
Sapeva che quella frase fosse vera, non le restava altro che accettare le cose come stavano. Ma si sa, molte volte le persone non riescono a leggere la verità neanche quando è scritta dalle loro stesse mani.
Probabilmente le dava conforto, il non essere compresa. Se qualcuno ti comprende fino in fondo non puoi più nasconderti, non puoi più scappare né rifugiarti nella solitudine. Perché se guardassi quella persona, vedresti il riflesso degli sbagli e dei rimorsi che ti porti dietro, e non sarebbe facile da gestire.
O almeno, per Adele non lo sarebbe mai stato.
Lei preferiva aggirarsi fra migliaia di specchi appannati.
«Non credi che sia meglio così?»
Giovanni respirò l’aria stantia del bar in cerca di risposte, ma trovò soltanto una crepa fra le mattonelle e un poster sgualcito di Pulp Fiction che penzolava da una striscia di nastro adesivo.
Strinse i pugni sotto il tavolo. «Se ciò che tieni dentro lo nascondi con così tanto impegno vuol dire che per te è meglio così.»
«Ma per te, per te invece?»
«Per me sei indecifrabile, però ti guardo lo stesso. Anzi, più sei difficile da capire, più mi piace guardarti.»
Adele prese inspiegabilmente quella frase come un’offesa, come se non le andasse a genio quello che aveva appena detto. Si imbronciò, afferrò un pasticcino e lo mangiò tutto intero, senza soffermarsi sulle buone maniere. «Te l’ho già detto: alla gente non piace guardarmi, e a me va bene così.»
«A me no.»
«Smettila.»
Adele lasciò aleggiare quella parola in mezzo allo spazio che li separava, ai pochi centimetri disegnati fra le loro ginocchia. La tirò fuori con risentimento, dando vita a una guerra silenziosa, dettata solo dai suoi sguardi taglienti.
Smettila, smettila, smettila.
Aveva troppa saliva in bocca e il rumore dei denti che stridevano l’uno sull’altro le rendeva impossibile pensare lucidamente.
Intanto, Giovanni continuava ad osservarla senza andare oltre i suoi movimenti rigidi e gli occhi diffidenti. Temette di aver sorpassato il limite sottile e immaginario che si crea quando due persone si incontrano e iniziano a conoscersi, sentì il rumore delle cesoie spezzare metri e metri di filo spinato.
Adele trattenne il respiro.
Non lasciarti addomesticare, si diceva. Non lasciarti guardare in quel modo.
Con le mani che tremavano e le ciglia già bagnate, si alzò senza preavviso e uscì dal bar spingendo con forza la maniglia della porta a vetri.
Scappò nell’aria calda che sapeva di benzina, le gambe rischiarono di cedere, ma lei aumentò il passo.
Piede sinistro, piede destro, piede sinistro, piede destro, e si ritrovò a correre. Lo stomaco le si contorse quando le lacrime iniziarono a scorrere copiosamente sulle sue guance, erano davvero calde e rendevano la linea tra l’asfalto e il cielo un guazzabuglio di colori sfocati.
Mise le mani avanti per paura di cadere, ma sbatté i palmi su una recinzione di metallo che la costrinse a fermarsi per riprendere fiato. Ingoiò tutta l’aria come se si fosse dimenticata di respirare, le rinfrescò la gola graffiata dal magone di emozioni che cercava in tutti i modi di respingere in fondo alla pancia.
Aveva infilato le dita fra i buchi della recinzione in metallo mentre barcollava alla disperata ricerca di capire cosa la rendesse così plagiabile dai sentimenti e così fragile da
collassare su se stessa.
Dammi una sola notte, ti prego, una sola notte per poter crollare, si disse.
Le lacrime cadevano tra i cespugli d’erba incolti, la schiena si era ingobbita al peso di quella frase.
Da lontano, Adele sembrava un cucciolo di volpe ferito che cercava invano di tornare alla sua tana.
«Solo per stanotte» ansimò, i polmoni si riempivano fra una sfilettata e l’altra.
Aveva alzato un attimo lo sguardo al cielo sperando di vedere qualche stella, ma tutto ciò che riempì quel nero fu una pesante e grossa nuvola. Niente stelle con cui parlare, niente desideri, niente sogni.
Le ginocchia batterono violentemente sull’erba quando le gambe di Adele cedettero. Ci fu un sussulto, sentì chiamare il suo nome, qualcuno urlava, ecco dei passi che si facevano più definiti, due braccia le avvolsero il busto sottile.
In pochi istanti – che a lei parvero durare tutta la notte – sentì il suo dolore riversarsi fuori violentemente, vomitò bile e lacrime nere come il cielo, il corpo scosso da forti singhiozzi. Giovanni l’aveva agguantata prima che sbattesse il viso a terra, con una mano le aveva afferrato i capelli per non farli sporcare e con l’altra la teneva in piedi in uno strano abbraccio. Percepiva la sua pelle tremare e gli venne una paura tremenda, sembrava troppo minuta per contenere tutto quello che teneva dentro, le palpebre erano così gonfie che stavano per scoppiare, ma lui rimase stravolto di fronte allo sguardo che gli arrivò dritto al petto.
Quello sguardo era un miscuglio spaventoso di paure, mancanze e dispiaceri soffocati con rabbia, i suoi occhi avevano iniziato a urlare. Qualcosa aveva scassinato quella porta che la nascondeva dal mondo e tutto uscì allo scoperto.
Rimpianti.
Sensi di colpa.
Ricordi ficcati in cassetti troppo piccoli per starci dentro.
Lividi rimasti sottopelle e cicatrici non ancora rimarginate.
Giovanni era diventato per un attimo il ricordo del riflesso di Adele, come un particolare che si nota solo con la coda dell’occhio durante una passeggiata, un piccolo fotogramma nel tempo.
«Sono qui», sussurrò. Non aveva alcuna intenzione di allentare la presa. «Sono qui.»
Adele aveva appena smesso di rigettare i suoi incubi, giacevano nel verde e nel buio di una notte di mezza estate. Girò la testa e lo guardò così, senza veli, senza pensare alle conseguenze.
Aiutami.
I suoi occhi parlarono chiaro, Giovanni sentì quella richiesta nelle orecchie come un canto lamentoso. Sembrò quasi esserci uno scambio di battute mai pronunciate.
Adele aveva capito di aver abbassato le difese, ma in quel momento non sembrava importante quanto il bisogno di abbandonarsi alle emozioni che lui le strappava di dosso inconsapevolmente.
«Non… Farmi cadere.»
«Non cadrai.»
Giovanni riuscì a sollevarle il busto con facilità, pesava come una chitarra elettrica. Infilò un braccio sotto le ginocchia e la tirò su, sbatté dolcemente la fronte sul petto di lui tenendo le braccia ancorate allo stomaco, alla costante ricerca di proteggere quell’ultimo briciolo di insicurezza che Giovanni non aveva ancora visto.
Per quella notte, però, avrebbe potuto fare un’eccezione alla regola. Tanto si sarebbe rialzata presto, forse all’alba, forse al tramonto, forse mai.
Sentiva il respiro di Giovanni fra i capelli e il battito del suo cuore nelle tempie. Quanto a lungo avrebbe potuto permettersi di farsi accarezzare?
E quante carezze ci vogliono, prima che una volpe venga del tutto addomesticata?
Giovanni aprì il retro del Volkswagen aiutandosi con la gamba destra per tenere gli sportelli aperti, s’infilò nel piccolo vano posteriore e lasciò scivolare il corpo leggero della ragazza con un sospiro, stando attento a non farle male, e lei percepì subito la morbidezza del materasso, era un po’ sporco ai bordi e con qualche macchia di birra qua e là. Vide lui con la coda dell’occhio, stava raccattando un lenzuolo con cui poco dopo la coprì fino alle spalle. Odorava di benzina.
Rimase immobile per tutto il tempo, sdraiata sul fianco destro, coi capelli a coprirle il viso. Giovanni chiuse gli sportelli e le si sdraiò accanto, le piccole finestre del camioncino erano coperte da tendine di pizzo, non si vedeva niente di ciò che stava fuori, solo una striscia di luce per via dei lampioni nel parcheggio.
Adele si sentiva più tranquilla adesso che si trovava nell’oscurità, il buio faceva parte di lei perché fungeva sempre da ottimo nascondiglio per occhi troppo curiosi come quelli del ragazzo vicino a sé. Inoltre, poteva piangere senza essere vista.
Restarono per qualche minuto così, in silenzio, sdraiati sullo stesso sporco materasso e sotto lo stesso cielo senza stelle. Due corpi che quasi si sfioravano.
Lui aveva ancora in testa l’immagine del suo sguardo incrinato.
Lei sentiva troppe emozioni per poterle catalogare e renderle invisibili.
Non c’era neanche la luna.
Giovanni osservò Adele nell’oscurità e stranamente gli venne in mente sua madre. Qualche tempo prima aveva visto una foto di Ivana da giovane, bellissima, stava sdraiata sul bagnasciuga della spiaggia di Ostia nella stessa posizione. L’aveva scattata Fabrizio con la reflex, all’angolo di quel ricordo perso nel tempo si poteva scorgere una parte del suo indice sfocato.
Strizzò le palpebre per scacciare via quell’immagine dalla mente e notò il petto di Adele alzarsi e abbassarsi lentamente. Allungò la mano e, senza fare il minimo rumore, la avvicinò al corpo di lei. Era spaventato, come se stesse per accarezzare un animale selvatico e non una semplice ragazza.
Poi le sfiorò il braccio con l’indice, la pelle marmorea che risaltava in tutto quel nero e le ossa delle clavicole ben visibili. Sentì dei forti brividi solleticargli la schiena, ma continuò a fissare quella che pareva il soggetto perfetto di un quadro di Schiele.
Adele, invece, lasciò cadere i respiri nell’aria mentre un turbinio di sensazioni rese il suo collo più rigido. Continuò a tenere gli occhi chiusi cercando di non prestare attenzione a quel contatto quasi inesistente, ma estremamente forte.
Infilò il pollice nella tasca dei jeans, sentì la superficie dura del pacchetto di sigarette e si tranquillizzò un po’, giusto il tempo di udire Giovanni alzarsi e uscire dal Volkswagen per poi chiudersi gli sportelli alle spalle. Si concesse un paio di respiri profondi, poi tirò fuori la sigaretta e se la infilò tra le labbra.
L’accendino stava in una cassetta di legno all’angolo del materasso, insieme a qualche rivista e un paio di cd finiti nel dimenticatoio. Sul fondo, mentre grattava il legno, infilò le dita in mezzo alla carta. Guardò meglio. Sopra il legno mangiato dalle tarme, come se fosse stato dimenticato, giaceva un libro.
Adele lo afferrò, era piuttosto piccolo, polveroso e con le orecchie alle pagine. Passò la mano sulla copertina strizzando le palpebre alla ricerca di qualche lettera da poter leggere, la avvicinò alla finestrella.
Il Piccolo Principe, un’edizione del ’79.
Non aveva la più pallida idea di come potesse essere arrivato lì, si ricordava solo che la maestra gliel’aveva fatto leggere a scuola e da quel momento se n’era completamente innamorata, ma con l’arrivo dell’adolescenza sparì chissà dove, perdendo tutta la sua magia.
Un veloce scatto del pollice e la sigaretta si accese dopo pochi istanti, impregnando l’abitacolo di fumo. Adele aspirò la nicotina e, sdraiata a pancia in giù col libro aperto sulla striscia di materasso illuminata, sfogliò piano i vari disegni scoloriti. C’era l’elefante mangiato dal boa, la pecora nella scatola, la rosa.
Soffermò lo sguardo su quella pagina, quella con il fiore avvolto dal vetro della piccola campana, e le sembrò per un attimo di intravedere se stessa.
Incastrata in una gabbia che avrebbe dovuto proteggerla dal mondo, graffiava inconsciamente le sbarre alla ricerca di un briciolo di libertà. Perché ciò che stava vivendo adesso non era libertà, ma solo una costante fuga.
Un’anima fuggente, ecco cos’era Adele.
Giovanni, intanto, camminava avanti e indietro nel parcheggio. Gli facevano male le gambe e il cuore, teneva il cellulare in una morsa stretta e respirava a scatti.
Non capiva perché quei due occhi verdi colmi di lacrime lo avessero scosso così tanto, aveva visto moltissime ragazze piangere nella sua classe. Una certa Ambra una volta gli chiese di uscire, e quando lui le disse di no, si mise a piagnucolare quasi istericamente. Gli dispiacque, certo, ma passò oltre. Non ne valeva la pena.
Quindi ora sì? Ora ne valeva la pena?
Valeva la pena soffrire?
Sudare freddo per uno sguardo non ricambiato?
Tenere stretta una persona che può scivolare via da un momento all’altro?
Scosse la testa, da solo non ci sarebbe mai arrivato. Col dito tremolante premette il nome del suo migliore amico nella rubrica del telefono. Tre squilli, poi silenzio.
Giovanni lo tirò fuori subito. «Ho paura, Pà.»
Un rumore di piedi che si muovono inquieti sotto le coperte, un sussulto.
«Che è successo? Ti senti male? Vengo subito, basta che me dici…»
«Tu sei mai stato innamorato?»
Di nuovo silenzio.
Paolo, nella sua camera dagli infissi lerci e i mobili trasandati, si tirò su a sedere e si passò una mano sulla testa. Aprì gli occhi, lo sguardo stava percorrendo gli ultimi mesi trascorsi.
Giovanni, non sentendo una risposta, aveva paura che il suo amico si fosse di nuovo addormentato. «Ci sei?»
«Credo di sì. Un paio d’estati fa conobbi una certa Adelina, era venuta in vacanza dal Trentino. Ci siamo incontrati davanti al Qube disco, il locale in Via di Portonaccio. Ecco, quando l’ho vista per la prima volta ho pensato “questa può essere la donna della mia vita”. Era stupenda Giovà, non puoi capì.»
«Sì ma cosa hai provato quando l’hai vista?»
«Non saprei, forse… Serenità, leggerezza?»
Quelle parole così dolci non si addicevano per niente al suo rapporto appena nato con Adele, lui sentiva costantemente il cuore in subbuglio e la mente pesante, piena di pensieri.
Se ne stava sempre su una corda, come un equilibrista, in bilico tra la paura di amare qualcuno e la voglia di essere amato davvero. Si bloccò in mezzo al parcheggio vuoto, sotto un lampione dalla lampadina quasi fulminata.
«Ma ci hai mai parlato con questa Adelina?»
La risata sincera di Paolo calmò i suoi battiti come una camomilla zuccherata.
«Certo, che te credi. Ci siamo seduti sul marciapiede e abbiamo iniziato a parlare di questo, di quello, di quell’altro… Poi ho guardato l’orologio e, mannaggia, s’erano fatte le quattro del mattino!»
Giovanni infilò il pollice nel passante dei jeans, leggermente confuso. I racconti non erano il punto forte di Paolo, ma ci metteva sempre molto impegno e gli dispiaceva chiedere qualche spiegazione in più.
«Io, vedi… Credo di averla trovata.»
«Cosa?»
«La mia Adelina. Credo, non ne sono sicuro. Come fai a capire se una persona è quella giusta se la incontri nel momento più sbagliato della tua vita?»
«Giovà, ci stanno davvero poche persone giuste nella vita di qualcuno. Se non fai niente per averle vicino, ti ritroverai davanti solo momenti giusti con persone sbagliate. E in quel caso non potresti farci niente.»
Nel petto di Giovanni salì un moto di frustrazione che non fu in grado di controllare. Per non alzare troppo la voce si morse il labbro, i denti affondarono nella carne e, poco dopo, nella sua bocca era rimasto il sapore del sangue.
«È complicato, lei è complicata. Non si lascia avvicinare da nessuno.»
«Non devi per forza avvicinarti a qualcuno per amarlo. Ci stanno anche persone che si amano da lontano, no?»
«Già.»
Mentre Giovanni cercava di comprendere quali fossero i sentimenti che provava per Adele, lei era ancora persa nella lettura del racconto di Antoine de Saint-Exupéry.
Teneva l’indice in mezzo alla rilegatura per non perdere il segno, gli ultimi rivoli di fumo sfumavano l’inchiostro che raccontava il primo incontro fra il Piccolo Principe e la volpe.
Adele leggeva a voce bassa, le labbra si aprivano e chiudevano facendo oscillare la sigaretta.
«Che cosa vuol dire “addomesticare”? È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire “creare dei legami”.»
Creare dei legami.
Quella frase che faceva una paura matta le entrò in testa. Dunque, sarebbe stato più semplice porgere la mano piuttosto che nasconderla?
Le venne in mente suo padre. Adele non pensava mai a lui, tranne quando aveva paura di morire. Si ricordava ancora com’era vestito l’ultima volta che l’aveva visto: giacca di jeans, mocassini in finta pelle e un paio d’occhiali da sole che gli coprivano lo sguardo, anche se lei sapeva bene come fosse fatto.
Lo sguardo di suo padre era arguto, cattivo, distante, come se fosse totalmente convinto che chiunque avrebbe potuto pugnalarlo alle spalle da un momento all’altro.
Adele non aveva collezionato molti ricordi con lui, aveva solo qualche foto nel comodino di sua madre e l’impronta dell’anello nuziale sulla guancia di lei quando piangeva.
Chiuse il libro e lo ripose nella cesta, fu un rumore secco che mescolò tanti granelli di polvere nel pulviscolo. L’ultima boccata di fumo e poi aprì di poco il finestrino, e la cicca cadde sull’asfalto. Intravide Giovanni appoggiato a un lampione lì vicino, le dava le spalle, perciò non poté vedere la sua espressione. Stava parlando con qualcuno al telefono.
Le schiena di Adele crollò sulla parete del veicolo, troppo stanca per combattere e tenere il peso dei segreti che portava. Scivolò di nuovo sul materasso che ora sapeva di tabacco, portò le ginocchia al petto e si abbracciò le gambe.
Come poteva creare legami con qualcuno se aveva paura di conoscere i lati più bui di se stessa? Come poteva lasciar entrare un ragazzo qualunque nei meandri spigolosi della sua anima?
Ma quello non è un ragazzo qualunque.
Strinse i denti, le mascelle bruciavano. Trattenne il magone fino a scoppiare, i polmoni sbattevano sulle costole come un tamburo.
Soltanto una lacrima le sfuggì, sapeva di pensieri mai regalati e albe mai condivise.
Le solcò la guancia, dura e insopportabile, e cadde silenziosa sul letto.
Fu così che Adele battezzò quell’impossibile e struggente storia d’amore. Lei, però, non lo sapeva ancora che quella sarebbe stata la storia d’amore più bella della sua vita.

Il tempo di una sigarettaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora