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Il tappeto azzurro sopra le loro teste s’incupì con il passare delle ore e dopo un paio di esibizioni di artisti meno famosi, il palco si colorò di blu. Il campo era diventato un ammasso di corpi impossibili da distinguere e la notte aveva assorbito le ultime grida di eccitazione, rendendole ovattate alle orecchie di Giovanni. Paolo, invece, sembrava aver
iniziato a vivere per la seconda volta: col collo tozzo allungato verso le luci e le braccia appese alle stelle, attendeva il momento catartico con fare quasi morboso.  
Passarono alcuni istanti, sprazzi di luce tagliarono il cielo nero, e tutto prese forma.
Bastò la prima nota.
Da centinaia di migliaia di bocche emersero urli sconnessi, pezzi di anime e di sogni diversi, ma con la stessa voglia di vivere quel momento come se potesse diventare eterno. E lo rimase, nel cuore di Giovanni.
Tutti iniziarono a saltare e a battere le mani a tempo di In the end, la terra si sollevò entrando negli occhi, fra le labbra secche e i capelli sudati, ma pareva non farci caso nessuno. I Linkin Park erano sul palco, a suonare davanti a una distesa di braccia alzate e accendini.
E al centro dell’autodromo, ficcata in mezzo al manto di coriandoli luminosi, c’era Adele.
Il suo cappellino da ciclista era sparito tra la folla, probabilmente era caduto in terra dopo una spinta più forte del dovuto o un salto troppo alto. Il groviglio di capelli castani faceva su e giù e alcune ciocche le finivano in bocca mentre cantava a squarciagola.
But in the end, it doesn’t even matter.
Un pizzicore dietro la nuca la fece rabbrividire. Si sentiva libera, capace di arrampicarsi fra tutte quelle schiene e arrivare in cima alle ringhiere di ferro, farsi schiacciare da centinaia di corpi diversi e occhi diversi.
E così fece. Mento alzato e ginocchia salde, partì per quel tragitto che di lì a poco le avrebbe sconvolto i piani.
Ma lei, questo, non poteva saperlo.
Si fece spazio lanciando qualche gomitata qua e là, la struttura fisica mingherlina non fu un punto a suo favore: venne infatti scaraventata spesso da una spalla all’altra senza rendersene conto. Le ultime note di In the end svanirono nella notte e One more light inghiottì il respiro di Adele e percepì la sua cassa toracica vibrare.
Gli accordi dolci della chitarra ammutolirono l’intero pubblico.
Anche Giovanni si fermò ad ascoltare. Chiuse gli occhi e sollevò il viso al cielo, il petto
gli doleva per la forza delle emozioni che aveva dentro. Questo vuol dire vivere, pensò. Lasciare che il cuore legga le parole di una canzone per emozionarsi.
L’aria fresca di quell’estate restò nei suoi polmoni a lungo, nella speranza di tenersela lì per sempre. Aveva un odore pungente, gli raschiava la gola e il respiro.
Paolo gli afferrò la maglietta dei Rolling Stones e la strinse in un pugno. Se non fosse stato suo amico, probabilmente avrebbe pensato che volesse picchiarlo. Invece sospirò, qualche lacrima era caduta sulle sue guance sporche di terra.
«Voglio sentirmi così fino a quando non morirò. Capito?»
«Capito.»
Giovanni gli lasciò una pacca sulla spalla senza aggiungere altro, sapeva che il suo amico non era un tipo sentimentale, ma spesso aveva bisogno di piccole attenzioni per sentirsi apprezzato.
Si passò le mani sul viso, bagnando i palmi. Era felice come si era sentito poche volte nella vita; si ricordava ancora il giorno in cui aveva imparato l’arpeggio di Dust in the Wind, Fabrizio lo aveva guardato orgoglioso e ne rimase così stupito che gli regalò un suo vecchio stereo della Sony. Oppure, come poteva dimenticare il giorno in cui prese dieci e lode al compito sugli integrali?
La sua vita aveva avuto pochi attimi di felicità, ma a Giovanni non dispiaceva. Se hai pochi ricordi sereni, li custodisci. Se ne hai troppi, li perdi.
Così sorrise davanti a quello spettacolo straordinario, lasciando dietro di sé le insicurezze e i dubbi che credeva di aver perso.
Un uomo barbuto e robusto dietro di lui rischiò di cadere e inciampò addosso a Giovanni come una tessera del domino, finendo per farlo sbattere addosso a qualcun altro. Non riusciva a capire bene chi fosse, aveva una cesta di lunghi capelli scuri e il corpo minuto, a occhio e croce poteva sembrare una ragazzina delle medie.
«Scusa, mi hanno spinto. Tutto okay?» urlò tentando di sovrastare la musica.
Ciò che vide dopo fu un paio di grandi occhi verdi.
Un po’ diffidenti, estremamente profondi.
Giovanni perse un piccolo frammento di sé, in quello sguardo. Era quasi sprezzante, gli si attaccò addosso come un secondo strato di pelle troppo stretto per respirare.
Non riuscì a dire niente.
Gli mancava l’aria, la terra sotto i piedi si sciolse e gli sembrò di cadere di nuovo in un abisso fatto di stelle e diamanti color smeraldo.
Come poteva spiegarlo, a Paolo, che non era più quello il suo posto?
Come poteva ammettere a se stesso che non sentiva più il frastuono delle centinaia di migliaia di persone intorno a loro e il ritmo incalzante della musica?
Gli parve di intravedere un lieve sorriso scompigliarle i lineamenti affilati, gli angoli delle labbra piene si sollevarono impercettibilmente.
«Tutto okay.»
Giovanni non sentì la sua voce, probabilmente l’aveva sussurrato.
Adesso erano entrambi in una piccola bolla persa nel tempo e nello spazio, un angolo di mondo che fece sentire Adele meno fuori posto. E lei era stata in tanti posti, nella sua vita. Dopo un’ingente eredità lasciata da uno zio ricco di famiglia era partita, a soli diciotto anni, per cercare una vita che potesse starle bene addosso.
Non l’aveva ancora trovata, ma quella sera fu diverso. E lo sapeva bene, perché invece di scappare via, percepì le sue gambe leggere fare un passo avanti. Sentendosi sempre meno libera, sempre più docile. “Se tu vuoi un amico, addomesticami!” lesse in una pagina del Piccolo Principe quando ancora non poteva capire il significato di parole così tanto spaventose.
«Io sono Adele.»
Lo cacciò fuori con risentimento, come se fosse avvolta da catene invisibili che nemmeno lei riusciva a vedere. Il suo nome le restò amaro sulla lingua e non riuscì a scrollarselo di dosso.
D’un tratto sbucò Paolo che scoppiò la bolla immaginaria nella quale i due si erano rifugiati, un’espressione di puro sgomento gli attraversava il viso squadrato. Si buttò sul suo amico senza esitare, abbracciandolo e spingendolo scherzosamente.
«Giovà, eri sparito! Dove t’eri cacciato, eh?»
Giovanni era rimasto immobile a prendersi gli abbracci e le spinte, si trovava in una dimensione parallela in cui accarezzava la guancia di Adele e osservava da vicino le sue pupille dilatarsi al suono della sua voce. Immaginò di prenderle la mano e scappare in mezzo a un’altra massa di sconosciuti per parlarsi solo con lo sguardo, per dirsi tutto e niente, saltare, lasciarsi trasportare dalla musica.
La musica che lui, ormai, non sentiva più. Gli arrivava alle orecchie come un sibilo lontano, lo stesso rumore delle videocassette quando finisce il nastro.
Si era rotto qualcosa dentro di lui, oppure era diventato consapevole che quel qualcosa fosse già rotto da tempo?
Giovanni si voltò a guardare Paolo, il suo migliore amico, ma gli sembrò di osservare un estraneo. Da quanto tempo aveva quel tatuaggio a forma di delfino dietro l’orecchio? Come mai aveva le nocche rovinate e il suo alito era ancora più pregno di fumo?
La bolla era scoppiata, e con essa anche la patina delle sue mere convinzioni.
L’aria gli uscì dalla gola con forza, come se avesse trattenuto il respiro per ore, e riportò l’attenzione sulla ragazza davanti a lui.
Adele, si chiamava. Adele.
Assaporò quella parola fino a quando non gli entrò in testa, ma quando smise di articolare per l’ennesima volta il suo nome nella mente, notò che lei non c’era più.
«Chi era quella tipa?» Paolo seguì la traiettoria dello sguardo di Giovanni, ma trovò solo un puzzle di corpi incollati l’uno all’altro in attesa della canzone successiva.
L’attimo prima li divideva un solo passo, l’attimo dopo una notte intera.
In preda a uno strano mal di stomaco, Giovanni iniziò a correre in varie direzioni lasciando gomitate a tutti quelli che tentavano di distrarlo nella ricerca. Cercava con lo sguardo, si alzava in punta di piedi fino a farsi male ai polpacci, la chiamava, ma niente.
C’era una distesa di volti sconosciuti e ordinari a prendersi gioco di lui durante quell’interminabile partita di scacchi senza avversario.
Continuò a urlare il suo nome sopra i versi di What I’ve done fino a terminare tutto il fiato che aveva in corpo e, senza rendersene conto, entrò in un pogo tremendamente movimentato che lo scagliò con prepotenza da una parte all’altra del cerchio umano. Perse l’equilibrio e cadde a terra in un intrico di gambe e braccia che gli ricordarono per un attimo il millepiedi che aveva studiato nel laboratorio di biologia qualche anno prima. Strizzò le palpebre, la polvere gli rendeva difficile vedere un buco libero dove alzarsi mentre veniva calpestato al ventre.
Sentì una fitta alle costole, urlò chiedendo aiuto, ma nessuno lo sentiva, le casse erano troppo potenti.
Non riusciva a scorgere uno squarcio di cielo, non c’erano stelle e aveva una paura agghiacciante di non poterle rivedere mai più. Tentò di dimenarsi, provò ad afferrare qualche mano, ma fu uno sforzo inutile.
L’ultima cosa che avvistò prima di essere sopraffatto dall’oscurità fu un paio di grandi occhi verdi.
E la musica… la musica non la sentiva più.

Il tempo di una sigarettaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora