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La luce fece un male cane agli occhi di Giovanni, che li aprì titubanti. Un bianco accecante gli soffocò lo sguardo e lui strinse i pugni non appena si rese conto di non essere a casa sua: le pareti della sua camera in Via Prenestina apparivano come ritagli di cartone coperti da uno strato di carta da parati blu rattrappita e grumosa agli angoli. Per questo lui le ricopriva con poster o con foto scattate dalla vecchia polaroid di sua madre.
Invece, in quella stanza senza nome non c’erano poster, non c’era carta da parati e non c’era nemmeno Paolo. Ma dov’era finito?
Fece un bel respiro.
Ripensò alla sera precedente con lo sguardo perso nel vetro unto della finestra accanto a sé. Si sentiva profondamente stanco, come se non avesse dormito per niente.
Con i polpastrelli attraversò la pesante coperta celeste fino a sfiorare il suo viso senza barba, quando percepì la ruvidezza delle bende intorno alla testa.
No, non era decisamente a casa sua.
Una donna entrò nella stanza, per un momento Giovanni sperò che fosse Ivana con la sua solita espressione apprensiva e i modi di fare grezzi che si portava appresso.
A salutarlo, invece, fu un’infermiera di mezz’età con un caschetto biondo che le incorniciava il viso tondo e roseo.
«Buongiorno Giovanni, come si sente?»
Se la società non avesse mai imposto filtri, avrebbe risposto “Uno schifo. Mi sono perso, non c’è più la musica, l’unica cosa che mi faceva sentire vivo. Ora cosa mi farà sentire vivo di nuovo? Come potrò uscire di qui e tornare alla mia vita di prima? C’è una medicina per le persone che non riescono più a vivere?”, poi avrebbe pianto e singhiozzato come un bambino impaurito, senza freni né inibizioni.
Ma ciò che traboccò dalle sue labbra screpolate fu semplicemente: «Un po’ meglio.»
«Bene. Dovrà stare qui un altro paio di giorni, abbiamo riscontrato una lieve emorragia cerebrale a causa della caduta. Si ricorda cos’è successo?»
Giovanni annuì, non avrebbe potuto fare altrimenti. Avvertì la pesantezza della coperta insieme al peso di non capire più chi fosse davvero. Le disse di aver sbattuto la testa mentre si trovava all’autodromo per un concerto, aveva perso di vista il suo amico e un attimo dopo si era ritrovato a terra.
La donna gli sorrise, il bianco del camice le illuminava gli occhi piccoli e le sopracciglia disegnate, e gli sollevò le palpebre col pollice sfolgorando le pupille di lui con una piccola luce all’estremità di una penna grigia. Un lieve click, e la luce sparì facendo spazio allo sguardo attento della signora. Il cartellino solleticò la fronte di Giovanni quando lei si avvicinò al suo viso, c’era scritto Giulia.
«Si ricorda che giorno è oggi?»
Il ragazzo percepì un lieve bruciore alla schiena mentre cercava invano di tirarsi su, voleva cercare Paolo, sentire il calore di una persona familiare.
«Siamo a giugno, il ventitré», fissò a lungo l’ago che gli entrava nelle vene e le forze gli mancarono per un istante. «Dov’è il mio amico? Lui…»
«Il tuo amico sta bene, è qui fuori. Prima di farlo entrare devo fare degli accertamenti, d’accordo? Questione di qualche minuto.»
Si lasciò scorrere il tempo addosso durante gli esami e le visite, sentiva la mente spenta, segnata da pensieri che non erano suoi.
E quando l’infermiera si chiuse la porta alle spalle, si lasciò andare a qualche lacrima silenziosa in mezzo a quelle quattro mura spoglie ed estranee.

«Giovà, mi senti? Devo chiamare la dottoressa?»
Paolo era venuto a trovare Giovanni in ospedale durante l’orario delle visite, un paio d’ore dopo il suo risveglio. Anche lui notò che qualcosa, nel suo amico, era stato completamente stravolto. Cosa, esattamente, non riusciva a capirlo.
«Sto bene, sto bene.»
Giovanni aveva fissato per tutto il tempo il mondo fuori dalla finestra.
Aveva visto una donna con un neonato – probabilmente suo figlio – attraversare le strisce pedonali e sparire fra le macchine.
Aveva osservato attentamente un uomo calvo e ingobbito spingersi sulla sedia a rotelle e piangere disperatamente in preda allo sconforto e alla solitudine.
Aveva visto un’accozzaglia di volti tristi o felici, abbracci desiderati da tempo e rabbia incastrata nel petto da troppi anni.
Poi aveva visto il riflesso di se stesso nel vetro e le nuvole bianche sfavillare oltre i suoi occhi.
«Mi dici cos’hai?» Paolo si era seduto ai piedi del letto rischiando di farlo ribaltare per il peso eccessivo, puntava Giovanni con fare insistente, mentre là fuori l’asfalto veniva accarezzato dalle prime gocce di pioggia.
«Non lo so. Non sento più la musica.»
Gli anelli scintillarono fra le dita di Paolo quando si aggrappò alla coperta, gli occhi vispi attraversati da un lampo di irrequietudine. «Che stai a dì?»
«Non sento le note, Pà. Non ci sono più.»
«Non è per via della botta che hai preso, vero?»
«No.»
«Sicuro?»
«Sicuro.»
Giovanni si tirò leggermente su con la schiena, lasciò adagiare le spalle sui cuscini e non aggiunse altro.
«Almeno cos’è successo con quella ragazza me lo vuoi dire?»
«Perché me lo chiedi?» Si sentì presto vulnerabile al suono di quelle parole, gli si conficcarono nelle costole come chiodi appuntiti. Anche quel nome aveva un non so che di affilato, quasi potesse tagliare la lingua il solo pronunciarlo. Sentiva in bocca il sapore del sangue insieme ad altri sentimenti confusi e contrastanti.
Paolo ascoltò la domanda attento, parve nascondere l’espressività del suo viso per paura di usare un tono troppo diretto. «Sembrava che… Vi conosceste da tanto tempo. Tipo due persone che si perdono per tanti anni e poi si ritrovano.»
Giovanni, in quel frammento di tempo perso oltre le mura bianche, capì.
Adele era stata l’unica persona in grado di rendere il suo mondo una strana serie di eventi fuori dal comune, oltre che a fargli perdere completamente la strada. Era bastato uno scambio di sguardi per cambiarlo, per fargli dimenticare ciò che aveva costruito e assemblato, tassello per tassello, durante i suoi anni più bui. Si era ricostruito da solo, Giovanni, con il dolore aveva fatto un’armatura avvolta di sorrisi così da non poter essere più trafitto.
Quei due occhi verdi, però, stravolsero ogni sua sicurezza.
«Ci siamo soltanto guardati», disse poi, «Si chiama Adele.»
«Adele… mai sentito prima.»
«Già.»
Paolo adocchiò l’orologio sul comodino di legno accanto al letto, visto l’orario si alzò facendo rimbalzare leggermente il materasso a molle. «Adesso devo andare, tornerò domani, okay Giovà?»
«Ma dove dormi? Ti serve qualcosa per…»
«Sto ‘na meraviglia io», la sua grassa risata fece vibrare i vetri, «Tu pensa a rimetterti.»
Lo abbracciò forte e gli scompigliò i capelli che sbucavano dalle bende in modo fraterno, tra un risolino e una battuta scadente. Giovanni non avrebbe voluto salutarlo, ma sentiva la testa pesante e le palpebre calanti.
Prima di uscire sentì un borbottio, gli arrivò come un lieve sibilo, ma cadde in un sonno profondo prima di poter formulare una risposta.
«Non pensarci troppo Giovà, tanto non la rivedrai mai più.»

Il tempo di una sigarettaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora