L’asfalto si era ormai asciugato, il sole aveva iniziato di nuovo a scottare la pelle fin sotto i vestiti.
Giovanni e Adele avevano lasciato il Volkswagen sul marciapiede di una strada chiusa affacciata su una collina del Sorrento. Appoggiarono appena le cosce sul guardrail, bruciava in mezzo al caldo delle due di quel pomeriggio estivo.
Il mare entrò con forza nelle pupille di Adele che le rimbalzò addosso tutta la vita, le onde le si attaccarono alle costole in un abbraccio inaspettato.
E lei lo sapeva che dopo quel viaggio sarebbe cambiata. Lo sapeva che non sarebbe più stata l’Adele che si nascondeva e fuggiva, lo sapeva alla perfezione, lì dentro fra l’inconscio e i brutti sogni. Forse sarebbe diventata una versione semplificata di ciò che era adesso, una ragazza difficile ma con meno zavorre sulla schiena.
Non aveva idea di cosa le sarebbe piaciuto diventare, non aveva mai avuto le idee chiare… Fin da piccola, alla famosa domanda trita e ritrita “Cosa vorresti fare da grande?” lei rispondeva con un’alzata di spalle. Non saprei, avrebbe preferito rispondere, forse vivere e basta?
Ma doveva pur sembrare una normale bambina d’asilo, perciò si inventava ogni volta un mestiere diverso, anche se si divertiva molto a dire le mansioni più improbabili.
E poi, non l’aveva mai capito questo concetto del “diventare grande”.
Quando, esattamente, lo diventi?
Una mattina ti svegli e ti senti cresciuto abbastanza da affrontare troppe responsabilità?
Chi lo stabilisce, poi, che non si può rimanere bambini anche con qualche obbligo in più?
Adele scosse la testa e i capelli le solleticarono le spalle. Aveva così tante domande, ma così poco tempo per pensare a una giusta risposta…
Il leggero vento caldo agitava la maglietta di Giovanni che aveva dimenticato una piccola parte di sé tra le onde, e non era sicuro di volerla riprendere. Scattò una foto al panorama pensando che potesse essere una bella foto da attaccare su una parete di una casa, magari la sua. Sbirciò Adele, la vide chiudere gli occhi e sorridere.
«Sei felice?»
Lei allargò le braccia, il caldo le tagliò le guance. «Sono felice.»
Non se lo sarebbe mai aspettato di leggere la felicità nel suo sguardo, ma in un pomeriggio d’estate, davanti al mare, è possibile qualsiasi cosa.
Giovanni si lasciò plagiare dal vento, si mescolò con gli alberi arroccati sulle alte colline, aveva i polmoni pieni d’aria e gli occhi aggrappati alla bellezza di quel momento fugace.
Momento fugace che venne interrotto dal rumore di un motore vecchio e malandato.
Si voltarono entrambi per vedere l’asfalto attraversato da un Ape 50 con le ruote sporche su cui guidava un ometto dalle basette grigie e le braccia grosse. Li salutò con un cenno della mano, aveva le dita piene di calli e le unghie nere.
Si sporse di poco col busto fuori dal finestrino e coi palmi a coppa e la bocca aperta chiamò di nuovo la loro attenzione.
«Dovete scendere giù in paese?»
Adele smicciò un secondo Giovanni per vedere una sua reazione, fece lo stesso col signore tarchiato al volante per assicurarsi che non avesse altre intenzioni, infine prese il ragazzo per mano e se lo trascinò dietro fino alla portiera. Osservò lo sconosciuto con fare diffidente. «Tu abiti lì?»
Il tipo si tolse il cappellino e mostrò una testa lucida e leggermente sudata. «Dal 1970 signora.»
E dopo un’ulteriore squadratura, accettarono. Salirono sul retro aperto dell’Ape, le scarpe sprofondate nel fieno e le mani pronte a reggersi, e l’ometto partì inquinando l’attimo limpido che avevano avuto i due ragazzi proprio lì, davanti al mare.
Le curve facevano traballare il busto di Adele, sembrava di stare sul tagadà di un luna park perso nel tempo e nello spazio. Ondeggiava, quasi danzava.
Giovanni, intanto, pensava a quanto fosse fortunato nel provare emozioni tanto forti da strappargli via il fiato. Tipo quel pizzicorio in mezzo alle spalle quando guardava Adele, o la sensazione di stare per piangere se gli capitava di vedere un bel tramonto.
Quella volta, però, si trovò a guardare le curve assottigliarsi e diventare una strada ancora più stretta che, in mezzo ai piccoli arbusti e alle rocce, s’infiltrava nelle colline, fra le case e gli hotel, per poi finire inghiottita dal piccolo porto.
Alcuni palazzi colorati riflettevano la loro ombra sull’unica passerella del porticciolo davanti al quale galleggiava una lunga fila di barche bianche dai nomi più improbabili.
«Eccoci», il signore scese dal sedile facendo sobbalzare le ruote, «Benvenuti a Marina Grande!»
Giovanni saltò giù e senza pensarci afferrò Adele per i fianchi e l’attirò a sé, per farla scendere. Fu un gesto così spontaneo che nemmeno lei ci pensò su.
Ormai, le frasi del Piccolo Principe erano diventate un frusciar di tende nella notte.
Un rumore impercettibile, che senti soltanto prestandoci attenzione.
Marina Grande era un piccolo paese che andava avanti grazie al turismo e alle sagre del pesce, soprattutto quelle in estate in cui si pescava più tonni.
L’ometto, una volta sistematosi le brache, si presentò come Fabio. Coltivava verdure in un pezzo di terra in cima alla terza collina a sinistra, aveva poco più di cinquant’anni, gli piaceva ascoltare i Rolling Stones nei giorni di pioggia e, ultima cosa ma non meno importante, amava sua madre.
«Venite, venite», li spronò ad attraversare la strada con movimenti pacchiani, rideva a crepapelle quasi fosse ubriaco. «Vi presento mamma, lei sarà molto contenta di ospitarvi se avete bisogno!»
Adele sgranò gli occhi e si aggrappò al braccio di Giovanni.
«Non si preoccupi Fabio, noi siamo solo di passaggio…»
«Sciocchezze! Non avete ancora visto il mercato, né il mare. E nemmeno il centro storico! Siete una bellissima coppia, lo sapete?»
«La ringrazio, ma noi siamo solo amici.»
Fabio si bloccò come se avesse sbattuto a un muro invisibile, in mezzo a due palazzine. La pancia che riposava sopra la cinta sobbalzò.
«Ah sì?»
«Sì.»
«Fa’ niente», fece spallucce e iniziò di nuovo a camminare, la matassa di peli che sbucava dalla canottiera bianca vibrò leggermente per via del vento e di una risata che non voleva ammettere. «Andiamo, casa è in fondo a questa strada.»
Camminarono per un centinaio di metri in silenzio, Adele strizzava le dita di Giovanni con forza, i sandali che sbatacchiavano sui ciottoli e le sopracciglia folte che si inarcavano alla vista dei cornicioni cadenti e dei terrazzi rimasti con una striscia di cemento sotto.
Un gruppo di bambini sfilò accanto a loro in bicicletta, le risate restarono attaccate ovunque, rimbalzarono sui muri e sulle finestre fino a quando Fabio non si fermò e indicò il suo portone.
Bussò tre volte sbattendo il palmo sul legno grezzo, era lo stesso rumore che faceva il padre di Giovanni ogni volta che aveva finito di sistemare un mobile.
«Mà! T’ho portato una sorpresa!»
Si udirono dei passi pesanti, un armeggiare di catene e serrature e un borbottio sommesso, poi sbucò fuori un viso tondo costellato di rughe. Una donna in età avanzata sorrise a Fabio e agli ospiti con fare dolce, le sue guance assomigliavano a due mele per quanto erano rosse.
«Ah, Fabietto!», si sporse ad abbracciarlo con le ginocchia un po’ traballanti e un poncho liso a coprirle le spalle scoperte.
Lo guardò felice, gli accarezzò la barba – un gesto materno che Adele aveva visto fare spesso – e infine si avventò gioiosamente sui due giovani. La vestaglia rosa pesca le si arricciò sulle maniche quando li avvolse calorosamente fra le braccia. «E chi sono questi due bei giovanotti?»
Adele rimase impietrita a ricevere quel calore familiare che non aveva mai sperimentato e si nascose fra i capelli per non rendere evidente il suo imbarazzo. Giovanni, invece, si sentiva a casa sua, a Roma, nella sua camera tappezzata di poster e con i vestiti accatastati sulla sedia.
«Siamo Giovanni e Adele signora, due viaggiatori, come sta?»
La donna anziana lo squadrò con gli occhi scintillanti di chi ha vissuto mille vite e non è assolutamente intenzionato a lasciarle andare. Era bassa, tarchiata, con i capelli corti e così bianchi che se li guardavi controluce si intravedeva la cute.
«Due viaggiatori, ah! Mi ricordo ancora quell’estate del cinquanta, io e la mia amica Silvia facemmo una bellissima vacanza a Positano. C’era un sole così caldo che… Uh, scusate! Volete entrare, prendere qualcosa? Io sono Giustina, Fabio è mio figlio, sapete? Coltiva i campi da quand’era ragazzino, è stato suo padre a insegnargli come tenere una zappa in mano. Era davvero un birbante a scuola, il mio Fabietto, vero Fabietto? E allora un giorno mio marito gli disse “Scegli: o la scuola o il lavoro”, e ha preferito zappare piuttosto che studiare l’italiano!»
Fabio si aggiustò il cappello sulla fronte. Era divertito, ma nascondeva dietro lo sguardo una certa vergogna. Sospinse sua madre di nuovo dentro casa, le dita callose lasciarono una macchia di terra sulla vestaglia della donna.
«Te lo dico sempre che hai la lingua lunga», lanciò un’occhiata a Giovanni e Adele, «Avete fame?»
Il ragazzo si strinse nelle spalle, sua madre gli diceva sempre che al sud non è consigliabile dire di no. «Se non disturbiamo…»
«Ma che disturbate!»
Entrarono in un piccolo appartamento al piano terra col pavimento tipico delle case costruite nel dopoguerra. Le pareti in alcuni punti non erano dritte e i quadri pendevano più verso sinistra, ma i centrini sotto ogni soprammobile, i cuscini dai ricami floreali sul divano, quel disordine di chi vive la quotidianità, davano a quel posto un’atmosfera tiepida e serena. L’umidità che filtrava dagli infissi in legno regalò un brivido a Adele che per poco non si accoccolò sul petto di Giovanni.
Attraversarono il salotto dove Giustina raccontò loro la storia delle tazze vintage che teneva esposte in una grande vetrina, poi i cucchiai di varie città del mondo, i servizi da tè, le bambole di porcellana, i bicchieri di cristallo. Tutte quelle esperienze le occupavano un’intera parete.
E Giovanni, invece, quanto spazio avrebbe occupato?
S’immaginò di infilare lì dentro la sua chitarra, ma gli uscì una smorfia.
Adele ascoltava i particolari delle storie con attenzione, inizialmente fu un po’ schiva di fronte alla calorosità di Giustina, ma ci si abituò in fretta e adesso capitava anche di farle domande sui suoi viaggi e le sue scoperte a cui l’altra rispondeva con gioia. Si comportava come se non parlasse con un’altra persona da mesi, forse anni. Probabilmente si sentiva sola, e questo l’avevano notato entrambi i ragazzi.
«… E questa è la storia del mio servizio da tè che mi regalarono per il matrimonio…», lo indicò stando attenta a non sporcare il vetro che rifletté il suo sguardo avvolto nella nostalgia, «Pensate, a mio marito non era piaciuto per niente! Ogni volta che passava di qua diceva “Ma non potevano regalarci un vaso?” e sbuffava, sbuffava, avreste dovuto vedere com’era buffo! Certo, era un tale brontolone, ma lo amavo davvero tanto.»
Adele notò una piccola lacrima incastrarsi fra le rughe di quel viso paffuto, e per un istante si dimenticò dove fosse.
Era davvero quello, l’amore?
Stare insieme tutta la vita, per poi perdersi?
Venerare le stesse labbra, sfiorare le stesse mani, poggiare il mento sulla stessa spalla, fondersi, dormire insieme, crescere insieme, imparare a memoria i difetti dell’altro e dimenticarli tutt’a un tratto.
E poi, perdere tutto.
Adele guardò quella donna consumata dal tempo, nei suoi occhi erano riflesse le paure e gli sbagli di lei. Erano due anime sperdute, coperte per anni solo dalla polvere perché nessuno era stato in grado di amarle.
La ragazza sciolse il contatto con Giovanni e si abbracciò lo stomaco, le braccia coperte da brividi e la muffa agli angoli che le riempiva i respiri.
Lei sarebbe stata in grado di perdere qualcuno che amava?
Sapeva, era convinta che se non era ancora innamorata di Giovanni, poco ci mancava.
Ma avrebbe permesso al suo cuore di soffrire ancora e assumersi tutti i possibili rischi?
Avrebbe accettato di trovarsi nel mezzo a qualche effetto indesiderato dell’amore?
Le sarebbe piaciuto avere un foglietto illustrativo dove leggere la lunga lista di sintomi che si accatastavano sul petto di chi si lasciava andare inerme alle emozioni.
Giustina si sistemò la nuvola di capelli che aveva in testa e strinse il braccio di Giovanni per attirare l’attenzione su di sé.
«Vi va di restare qui per la notte? Stasera c’è una bellissima festa in piazza con musica e tanti balli, io e mio marito ci esibivamo spesso nel valzer. La prima volta che ci siamo incontrati è stata su quella pista da ballo, io ero con un gruppo di amiche mie e lui non faceva altro che guardarmi. Allora sapete che ho fatto? Sono andata da lui e gli ho detto “Senti, se ti piaccio perché non mi inviti a ballare?”, avreste dovuto vedere come diventò rosso, sembrava un pomodoro! Poi mi accompagnò a casa, mio padre non era molto contento, mi riempì di ramanzine fino al giorno dopo. Comunque vi va di restare, vi va?»
Adele guardò la mano della signora stringere quasi con avidità la pelle di Giovanni, come se avesse paura di vederlo scappare da un momento all’altro.
Era questo che lui provava ogni volta che lei tentava di fuggir via?
Lo guardò di sottecchi e annuì.
«D’accordo, resteremo. Grazie mille signora.»
«Una volta sì che lo ero! Adesso sono solo una vecchia piena di acciacchi. Vi faccio vedere dove dormirete, è la vecchia stanza di Fabio e Guido. Guido è partito in missione due mesi fa, qualche volta mi scrive una lettera per tenerci in contatto e farmi stare tranquilla, che le mamme stanno sempre in pensiero per i loro figli, sempre!»
Ciondolò verso un corridoio stretto, dal soffitto pendeva una lampadina attaccata ai fili della corrente. Aprì una porta scheggiata da un lato, e agguantò la maniglia consumata. La vecchia camera dei figli di Giustina era una piccola stanza con due letti singoli, due comodini, un armadio a muro di truciolato e una grande finestra dalle persiane sverniciate. Non aveva decorazioni ad eccezione di una Madonna in porcellana sopra una mensola che teneva in piedi una fila di libri scolastici.
Giustina accarezzò le lenzuola, fra le sue dita erano rimasti impigliati ricordi dolci, genuini.
Adele, invece, distolse lo sguardo pensando di non voler invecchiare mai. Perché gli anni passano, ma il dolore, in qualche modo, resta sempre attaccato come un parassita.

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Il tempo di una sigaretta
Storie d'amore«Tu potresti salvarmi» disse lui. Lei, con lo stomaco sottosopra e il labbro fra i denti, tentennò. Salite e discese, questo era il ritmo stancante della loro ingarbugliata relazione, di quell'amicizia improbabile, di quel gioco in cui vince chi è p...