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Aveva passato una notte piuttosto piacevole, Giovanni, si era svegliato dopo otto ore filate senza troppi dolori. L’infermiera dai tratti gentili gli aveva tolto le bende, l’unica cosa che si notava era un livido bluastro sulla fronte grande quanto una moneta.
Ivana lo aveva tartassato di chiamate da quando era venuta a sapere dell’incidente, non faceva altro che chiedergli come stesse, se fosse dovuta salire anche lei per vederlo e riempirlo di carezze.
Giovanni ne aveva un po’ bisogno, in realtà, ma dissentì. Non voleva creare trambusto, e poi sarebbe uscito dall’ospedale il giorno dopo.
Terminata l’ultima chiamata del giorno, lasciò il telefono sul comodino e infossò la testa nei cuscini che odoravano di candeggina. In pochi istanti svanì ogni cosa intorno a lui, ed ecco che nella sua mente iniziarono a scorrere le immagini di quell’incontro unico e tormentato.
I ciuffi disordinati sulle spalle ossute.
Le sopracciglia folte a solleticarle lo sguardo.
Il sorriso increspato fra i denti grandi e squadrati.
Gli occhi pieni di paure e rimorsi.
Avrebbe potuto disegnarla alla perfezione, un volto così particolare non si dimentica facilmente, non per un attento osservatore come Giovanni.
Si lasciò completamente trascinare, e non si accorse della presenza di un’altra persona nella stanza, tenne gli occhi serrati tutto il tempo.
«Giovanni?»
Uno stridio. Poi, silenzio.
«Giovanni, si sente bene?»
Era stato acceso un altro monitor, Giovanni sentì le vibrazioni del battito di qualcuno, le sentì sottopelle. Puntò lo sguardo sull’infermiera che se ne stava in piedi al lato del letto, due occhiaie scure nascondevano la sua antica bellezza.
«Tutto bene ragazzo?»
Sollevò le palpebre e deglutì, ancora frastornato. La donna le appoggiò quattro lunghe dita sulla fronte, erano gelide in confronto alla temperatura della sua pelle.
«Hai la febbre», sentenziò a bassa voce. «Riposati.»
Gli sistemò le coperte attorno alle spalle e si allontanò senza fare rumore. Borbottò qualcosa che Giovanni non sentì, un rumore di lenzuola stropicciate gli entrò flebile nelle orecchie.
I cardini della porta cigolarono quando l’infermiera se ne andò, lasciando la stanza d’ospedale in un silenzio sterile e pesante.
La luce che filtrava dalle persiane affondò nella parete di fronte a lui e dovette coprirsi lo sguardo con la mano per vedere meglio.
Ciò che vide, però, lo scosse fino in fondo alle viscere.
C’era Adele sdraiata nel letto davanti al suo.
Le stesse coperte celesti e pesanti coprivano quell’esile corpo fino al busto, gli stessi cuscini le avvolgevano i capelli spettinati e i monitor sopra di loro emanavano battiti cardiaci rapidi e spauriti.
A Giovanni gli parve di specchiarsi nel lago di Narciso: più osservava Adele e più si perdeva dentro se stesso, capendo di voler cadere oltre l’acqua e gli abissi.
Era magra, la pelle così diafana che gli vennero in mente quei finissimi trucioli di legno che suo padre raccattava da terra quando costruiva i mobili in garage. Non riusciva a capire quanto fosse alta dato che se ne stava rannicchiata su un lato, le braccia incrociate a proteggere il seno quasi inesistente. Sembrava che Adele, inconsciamente, stesse provando a trattenere in lei emozioni tormentose.
Si sporse un po’ di più, incuriosito. Non certo per la sua bellezza: da ciò che Giovanni riusciva a osservare, non c’era una cosa che lo faceva pensare alle modelle delle riviste, o alle belle studentesse prosperose che adocchiava al liceo da dietro le porte dei bagni.
Quella ragazza, quell’esile corpicino accartocciato sullo scomodo materasso grigio, sembrava un comune essere umano… Cos’aveva, lei, di così tanto speciale?
«Adele?»
Sentendosi chiamare, Adele si accartocciò ancora di più. Lì dove le ossa tiravano la pelle, erano nascoste vene intagliate nel colorito marmoreo.
Trattenne il respiro.
Sapeva bene che quello fosse il ragazzo del concerto, l’aveva riconosciuto dai capelli liscissimi e dritti come spine di riccio. Ma aveva una paura tremenda di guardarlo ancora negli occhi e sentirsi trasportare non dalla musica, ma dalle emozioni.
Perché le emozioni erano troppo forti per lei.
«Adele, sei tu?»
Inspirò l’aria attraverso il lenzuolo che stringeva tra le mani, era caldo e leggero sulle braccia. Il fianco destro – quello su cui era sdraiata – le doleva, ma non voleva muoversi.
Respira, prendi tempo.
Mosse lentamente la mano sotto la coperta e si aggrappò all’iPod che aveva nascosto per riuscire a passare le notti senza brutti pensieri. Lo accese stando attenta a non far proiettare la luce dello schermo sul soffitto, infilò gli auricolari nelle orecchie e avviò la playlist.
Asleep dei The Smiths partì docile con il pezzo al pianoforte e Adele sentì immediatamente il petto più leggero. Strinse l’iPod, le dita sudate e le labbra screpolate compresse in una linea sottile.
Sing me to sleep
Sing me to sleep
I’m tired and I
I want to go to bed.
Gli occhi si chiusero dopo pochi minuti, la musica a distenderle i muscoli e le parole che la cullavano. Tra una canzone e l’altra sentì Giovanni dormire profondamente, e sorrise.

Una voce svegliò Adele da un sonno inquieto, aveva sgualcito la coperta fino ad arrotolarla in fondo al letto e fatto cadere un cuscino sul pavimento.
Se sua madre fosse stata lì in quel momento l’avrebbe sicuramente disturbata con parole isteriche e pesanti, lo faceva sempre quando trovava qualcosa fuori posto. Adele, però, si sentiva tutta fuori posto, e per questo era andata via senza esitare davanti a niente.
L’infermiera la visitò la sera, constatando che sarebbe potuta uscire il giorno successivo, e poi andò a svegliare Giovanni per chiedergli come stesse. Lui si drizzò subito sui cuscini come un palo e spalancò gli occhi vispi nella penombra.
E, inevitabilmente, i loro occhi si incrociarono.
Adele distolse lo sguardo e afferrò istintivamente l’iPod in cerca di una via d’uscita, ma aveva usato tutta la batteria per addormentarsi e non si accendeva più. Non poteva nemmeno alzarsi, il piccolo tubicino collegato al suo avambraccio le causava un lieve fastidio e non sapeva come staccarlo.
Stavolta non poteva rimanere in silenzio, ormai lui l’aveva completamente riconosciuta e inoltre aveva il busto sollevato e il viso ben illuminato dagli ultimi raggi di sole.
Era intrappolata in quella fredda stanza d’ospedale con un ragazzo che sembrava voler dare troppo a una persona come lei, una persona che scappa via non appena viene sfiorata.
Non voglio essere addomesticata, pensò. Non voglio essere soffocata dalle catene.
Mille pensieri le si annidarono nella mente come scarabocchi.
Non aveva mai avuto così tanta paura del mondo, non aveva mai sentito tutto quel gracchiare nella sua testa e non si era mai sentita così tanto vicina a qualcuno da avere il bisogno di stargli lontano.
Eppure, nella vita accadono cose imprevedibili e Giovanni ci si era trovato in mezzo senza avere il tempo di reagire, senza avere la possibilità di capire gli strani sentimenti che gli ribollivano nello stomaco.
«Perché non mi parli?» le aveva chiesto a bassa voce.
Lei puntò lo sguardo sulle sue mani annodate in grembo. «Non amo parlare.»
«Non mi guardi neanche.»
«I tuoi occhi mi fanno paura.»
Giovanni incassò quella risposta cercando di attutire il colpo con un’altra domanda. «Come mai?»
«Mi guardi come se ci fosse qualcosa di interessante da vedere.»
«E non pensi che potrebbe essere proprio questo il motivo per cui ti guardo?»
Adele tacque. Stringeva così forte le dita da sentirle formicolare e il suo cuore aveva iniziato a fare i capricci, le nocche erano diventate biancastre.
«Di solito la gente non mi guarda e a me sta bene così.»
Quella sentenza rese Giovanni ancora più titubante nei confronti della conversazione che stavano affrontando. Adele sembrava avere un tono aspro, un po’ tormentato, gli fece venire in mente le discussioni che aveva con sua madre quando lo beccava ad ascoltare la musica alle cinque del mattino, due ore prima di entrare a scuola. Non riusciva proprio a farne a meno.
Giovanni decise di cambiare discorso. «Tu vivi qui?»
«No», lei scosse la testa e sollevò leggermente le spalle, come a nascondersi, «Vengo da un posto lontano.»
«Lontano quanto?»
«Abbastanza da non ricordare.»
Silenzio.
Anche Giovanni avrebbe voluto dimenticare – solo per un po’ – e magari tornare a sentire le note, le melodie, le voci…
Adele si stese nel letto e si coprì fino a sotto il mento, osservava distrattamente il soffitto immaginandosi nel suo camioncino durante l’ennesima fuga. E poi, con l’aria diffidente di chi non sa più in cosa credere, con la sua anima fuggente e le braccia avvinghiate al corpo, cedette.
«Ti sei mai sentito perso?»
Giovanni sbatté le palpebre, era quasi buio e i contorni iniziavano a confondersi, anche quelli di Adele. «Sì, adesso.»
«E non hai provato ad ascoltare un po’ di musica?»
«Con me non funziona più.» Si sentì spoglio di tutti i suoi tormenti, Adele lo stava fissando con distaccata curiosità e sembrava aver reso fragile il muro che li separava.
«Perché?»
«Non riesco a sentirla.»
Lei sgranò gli occhi, le sue spalle vibrarono leggermente come se avesse trattenuto un singhiozzo. Le era capitato molte volte di perdersi, ma era sempre riuscita a sentire le note rock che adorava fin dentro le ossa.
Come era potuta succedere una cosa del genere?
«Se la tua anima smette di parlare, la musica smetterà di ascoltarti» pensò ad alta voce. Probabilmente Giovanni percepiva un profondo blocco dentro di sé e non era in grado né di fare un passo avanti, né di lasciare andare il suo dolore. Era un ragazzo sordo di fronte alle emozioni e muto di fronte alle sofferenze.
Non voleva accettarlo.
«E se non parlerà mai più?»
Adele osservò il ragazzo guardare le stelle oltre la finestra. Sembrava una lampadina consumata, aveva perso energia e la luce che portava dentro si stava affievolendo.
«Non vivrai molto a lungo.»

Il tempo di una sigarettaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora