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La mattina seguente si presentò con un cielo grigio.
Giovanni e Adele si erano svegliati per colpa del rumore dei tuoni che faceva vibrare il vetro della finestra, ed erano usciti presto per ripartire. Non parlarono molto, ma si era creato un silenzio leggero, di quelli che ti permettono di pensare lucidamente senza troppo disagio nel mezzo.
Cambiarono i vestiti della sera precedente con un paio di pantaloncini e una canottiera e si buttarono sui sedili giusto in tempo per non prendere la pioggia. Sperlonga era diventata deserta, per le strade camminava solo il vento che faceva sbatacchiare le persiane e le tende dei negozi.
Un gatto randagio corse sul marciapiede non appena il motore del camioncino si accese con un gorgoglio sommesso, e Adele disse addio all’unica parte serena della sua giovinezza.
La pioggia ticchettava sul vetro con forza, l’asfalto si confondeva col cielo e Giovanni fissava il mondo fuori dal finestrino con le mani chiuse in grembo, ripensando alla notte precedente. Gli venne un brivido all’altezza del collo non appena si rese conto di averle detto quelle parole importanti, parole che non aveva mai detto a nessuna.
Aveva pensato una volta di confessarlo a Matilde, una ragazza minuta dagli occhiali grandi e tondi, col vetro spesso come i fondi di bottiglia, che camminava a testa bassa fra i corridoi di scuola. Probabilmente era diventata il mirino di qualche scemo che si divertiva a prenderla in giro.
Un giorno, dunque, Giovanni pensò di dirle quelle due parole, giusto per vedere come potesse essere il suo viso se attraversato da un po’ di felicità. Poi si ridestò – forse era troppo – e le sorrise e basta.
Ma quel sorriso, alla ragazza dagli occhi tristi, restò attaccato al cuore per anni. In un certo senso, la cambiò.
Iniziò a portare gli occhiali meno spesso, non camminava più a testa bassa fra i corridoi e, qualche volta, Giovanni giurò di averla vista ridere.
Fu bello averla fatta sentire importante, era un ricordo a cui lui pensava spesso.
Perché basta poco per dire di sì alla vita, per buttare giù pareti e pareti di rabbia, frustrazione e dolore. Il difficile è ricostruire tutto con occhi diversi.
Adele l’aveva guardato di sottecchi, con un mezzo sorriso distratto, mentre accendeva la radio. Magic dei Coldplay la fece entrare in un labirinto di pensieri, le unghie corte che grattavano il volante e le cosce attaccate alla pelle del sedile.
And I just got broken
Broken into two
Still I call it magic
When I’m next to you.
Pareva suonare apposta per lei, quella canzone. Si sentiva proprio così, rotta in due, anzi no, in mille pezzi, in centomila, e nonostante questo continuava a sentire le emozioni scombussolarle il petto ogni volta che guardava il suo compagno di viaggio.
La pioggia s’infittì. Non si vedeva niente, era talmente buio che sembrava notte fonda e gli alberi intorno alla strada cominciarono ad assomigliare a mostri inquietanti.
Adele premette il piede sul freno non appena notò una stazione di servizio.
«Forse è meglio fermarci.»
Giovanni annuì. Qualcosa gli aveva prosciugato la serenità nello sguardo, osservava la pioggia in modo freddo, quasi la odiasse, teneva i pugni serrati e la mandibola scalpitava sotto la pelle.
Lei si inserì nel primo posto vuoto che riuscì a vedere oltre il muro d’acqua, aveva iniziato a tirare un vento tanto forte da far rimbalzare la vettura a destra e sinistra, come uno stelo d’erba.
Giovanni respirava a stento, le orecchie piene di tempesta, di canzoni che non era in grado di ascoltare.
«Del?»
Adele aprì gli occhi, quel dondolio l’aveva assopita piano piano e l’aveva riportata indietro nel tempo, a quando sua madre la cullava per farla addormentare. «Mh?»
«Secondo te l’amore può salvare le persone?»
«Salvare le… persone?»
«Sì», Giovanni annuì fermamente e lasciò che un singhiozzo riempisse il camioncino, «Mi chiedo spesso se una carezza possa ricucire le ferite lasciate da coloro che prima ti hanno ucciso.»
Lei assottigliò lo sguardo, fu strano vederlo piangere. Gli si gonfiarono le palpebre e le sue guance si colorarono di rosso.
«Le ferite spesso si rimarginano da sole.»
Non sapeva cosa dire, aveva scarse abilità nel rassicurare gli altri. Neanche con se stessa, in realtà.
Si lasciava annegare e basta.
«Forse impari a vivere quando accetti il dolore.»
«O forse quando non lo provi più.»
«Non so se ci riuscirò. Per adesso non riesco a ricordare mio padre senza pensare a quanto faccia male.»
«Devi farlo per lui.»
«Forse, un giorno.»
Giovanni le raccontò di Fabrizio, alcune cose che gli piacevano di lui.
Le raccontò di com’erano ruvide le sue mani quando lo accarezzava, di come gli si assottigliavano le rughe d’espressione intorno agli occhi se rideva.
Di come lo abbracciava mettendo sempre una spalla sopra e una sotto.
Di come affinava le labbra mentre lavorava il legno.
Di come muoveva il collo ogni volta che partiva il riff di Johnny Be Good.
Di come lo sentiva vicino solo quando c’era la musica, anche se la musica, lui, non la sentiva più.
Adele restò ad ascoltare quelle parole piene di nostalgia e vago risentimento fino a immedesimarsi. In effetti, se avesse saputo come sarebbero andate le cose, avrebbe colto l’attimo con maggiore tenacia, se avesse saputo… Se le cose fossero andate in modo diverso…
Se lo dice spesso molta gente, gente che ha perso cose importanti.
Eppure, se ogni persona non avesse vissuto quello che ha vissuto, chi sarebbe adesso? L’eco di se stesso? Qualcosa di più? Qualcosa di meno?
La tempesta, dopo poche domande interiori, si placò. Ne restò soltanto un odore di asfalto bagnato e qualche ramo caduto in mezzo al parcheggio.
Sotto la luce dei lampioni mezzi fulminati, Giovanni e Adele si guardarono. I loro occhi erano diventati specchi crepati in cui intravedere le sofferenze dell’altro.
«Tu potresti salvarmi» disse lui.
Lei, con lo stomaco sottosopra e il labbro fra i denti, tentennò.
Salite e discese, questo era il ritmo stancante della loro ingarbugliata relazione, di quell’amicizia improbabile, di quel gioco in cui vince chi è più ferito o disordinato.
Un gioco difficile da comprendere, senza regole, senza barriere, senza solitudine.
Eppure, in quell’istante in cui i loro occhi s’incontrarono, lei si sentì più sola che mai.
«Non so se ne sarei in grado.»
«Sì che lo sei.»
«E cosa te lo fa pensare?»
Giovanni si asciugò le lacrime che avevano iniziato a tirargli la pelle, arrossandola. Si lasciò andare a un mezzo sorriso.
«Mi fido di te. E non sei come gli altri.»
«Ma io non ho neanche imparato a vivere, Giò. Sono sopravvissuta, ma non ho ancora imparato a vivere.» Adele cercava in tutti i modi di scappare dalla verità con tono quasi lamentoso, a voce bassa.
«Imparerai, ne sono certo.»
«Come fai ad esserne così sicuro?»
«Perché saremo insieme, Del», Giovanni le accarezzò una guancia con delicatezza, per non farla andare via. «Perché saremo insieme.»

Il tempo di una sigarettaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora