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Giovanni e Adele furono svegliati dal rumore dei motorini che sgommavano sulla ghiaia, le urla esaltate di un gruppo di ragazzi entrarono nelle loro orecchie in modo brusco quando ancora non avevano aperto gli occhi. Così si trovarono ben presto sopra il tappeto d’asfalto, i capelli al vento e le ciglia agganciate al sole.
Adele si sentiva forte e sicura mentre salutava con lo sguardo l’ultimo pezzo di mare livornese, Giovanni aveva appena oltrepassato il ponte di Calignaia con le dita avvolte al volante come steli di una pianta rampicante.
Dunque, ripresero il viaggio. Un viaggio alla scoperta del mondo che riuscivano a vedere coi loro occhi ingenui e pure quello che adombrava la loro anima.
Ancora non se ne accorgevano di aver imparato tante cose. Innanzitutto, non avrebbero mai lasciato decidere agli altri cosa fosse giusto per loro – era, invece, l’errore che aveva fatto la donna smunta con gli occhi persi che lavorava al casello dove Adele e Giovanni erano passati col camioncino. E nello stesso istante in cui il Volkswagen oltrepassò la sbarra bianca e rossa del casello dell’autostrada, la signora sconosciuta si domandò se in quella vita, regalata ma non voluta, avesse fatto almeno una scelta buona.   
Adele aveva iniziato a farsi domande sull’amore mentre tirava fuori la terza sigaretta del giorno e l’accendeva distrattamente.
Esiste davvero?
Si può toccare?
Di che colore è?
Può farti sentire al sicuro o è scivoloso come le dita che accarezzano il ghiaccio?
Probabilmente non avrebbe mai avuto la possibilità di innamorarsi. Sarebbe semplicemente finita in un bar, a mezzanotte passata di un anno indefinito e sicuramente da dimenticare, a chiedere a uno sconosciuto se avesse mai amato e se quel sentimento potesse calzare bene anche a lei, nonostante fosse una ragazza stramba senza regole o pregiudizi che vedeva il bianco nell’inchiostro e le albe nei tramonti.
Alla fine, non avrebbe mai potuto sapere.
Alla fine, doveva soltanto restare a guardare fuori dal finestrino del suo veicolo ammaccato, e riposarsi un po’. Così chiuse le palpebre, immaginò di danzare sotto le stelle con un ragazzo dall’aria familiare, ma che a stento ricordava. Un ragazzo che, in quello stesso momento, si voltò a guardarla e rispose a sua insaputa a tutte le domande che avevano invaso la mente di Adele pochi istanti prima.


Giovanni vide il sole calare dietro una collina, le palpebre di Adele erano chiuse e ferme da un’ora ormai. L’autostrada sembrava allungarsi, alcuni alberi la delimitavano immobili e dietro di questi faceva capolino un mare più calmo e gentile.
Erano scesi a sud della Toscana, forse poco prima della Maremma, Giovanni non ne aveva idea. Sapeva solo che in quelle zone ci fossero molti cinghiali e che le sagra del tortello fosse una delle cose più affascinanti che suo zio gli raccontava quando lo andava a trovare durante le vacanze natalizie, prima ancora che cominciasse ad andare a scuola. Lo zio Franco aveva una pancia a dir poco prominente, abitava in una piccola cittadina vicino la laguna di Orbetello, Follonica, di cui parlava sempre bene.
C’è il carnevale più bello del mondo, a Follonica.
C’è il mare più bello del mondo, a Follonica.
E il ristorante più romantico del mondo, e gli artisti di strada più sorprendenti, e il cinema all’aperto più incantevole, e così via. La sua lista era infinita.
Quando però vide il cartello stradale con l’uscita che lo zio gli aveva descritto centinaia di volte, gli sembrò di ritrovarsi in un sogno che magicamente si infrange nella realtà.
Prese la curva con leggerezza, tenendo il volante con una mano. L’altro braccio era appoggiato allo sportello, dal finestrino abbassato entrò un’aria salina che a Giovanni piacque subito. Altre due curve e tre file di pini su entrambi i lati della strada oscurarono il tramonto coi loro rami dipinti di rosso, sembrava di stare dentro un’enorme gabbia toracica.
Qualche metro dopo gli apparve un grande parcheggio sterrato dove alcune roulotte si erano già appostate, ci entrò dentro con la prima e fece attenzione a non rovinare le gomme.
Per il rumore delle ruote sui sassolini, Adele si svegliò dal profondo sonno in cui era caduta. Si stropicciò gli occhi e allungò le braccia fino a toccare il tettuccio coi palmi.
«Dove siamo?»
Giovanni la guardò di sbieco mentre si apprestava a entrare in uno dei pochi posti vuoti. Si aggrappò alla testiera del passeggero e si girò col busto per infilarsi in retromarcia.
«Follonica. Una piccola città di cui mi parlava sempre un mio parente quando ero piccolo.»
«Mai vista.»
«Ora la vedrai», Giovanni spense il motore e scese chiudendo la portiera con una spinta del fianco. «Andiamo?»
In uno slancio felino e silenzioso, Adele apparve davanti al retro del camioncino, le suole delle sue scarpe non facevano alcun rumore sul terreno. Aprì gli sportelli, balzò dentro e disse a Giovanni di aspettare un paio di minuti.
Lui attese. Si sentì un po’ come in quei film americani dove gli accompagnatori attendono impazienti l’entrata in scena della loro dama, il vestito frusciante sulle scale e i guanti plissettati, per poi essere costretti dai genitori di lei a farsi fare una foto da appendere in salotto.
Calciò qualche sasso troppo grande, osservò il cielo colorarsi di rosa e le nuvole passare veloci sulla sua testa. Percepiva l’ansia crescere dentro di sé, e se avesse sbagliato qualcosa e Adele non sarebbe voluta più uscire? Forse aveva già compiuto qualche errore, dalla vettura non fuoriusciva uno straccio di parola.
Iniziò a giocare con la maglietta nera che aveva addosso lasciando qualche grinza in fondo, lasciò le sue mille domande sospese nell’aria e bussò sul metallo rosso.
«Tutto okay?»
Adele sbucò dal retro e rimase in piedi sul Volkswagen reggendosi con le braccia al tetto.
Regalò a Giovanni un sorriso. Si sentiva davvero carina con quel vestito di lino coi fiori disegnati sopra, i capelli raccolti in uno chignon la facevano apparire un tipo più acqua e sapone. Ma la cosa sconvolgente fu notare che il suo abbigliamento non stonasse per niente con il suo modo di essere.
O, probabilmente, quella sera voleva essere un’Adele diversa.  
Dai sandali imperlinati arrivò un suono di campanelle quando lei saltò giù dalla vettura e la chiuse, poi fece un giro completo davanti a Giovanni e la gonna del vestito le si gonfiò leggermente sopra le ginocchia. «Ti piace?»
Lui la guardò e fu rapito dal leggero fruscio del cotone sulla sua pelle bianchissima.
Annuì, la luce fioca del sole l’aveva resa ancora più angelica. «Mi piace. E mi piaci tu.»
Adele gli lanciò un’occhiata confusa, non se l’aspettava mica un complimento così, senza tanti fronzoli. Ma lo accolse, rimase zitta e iniziò a camminare cercando di nascondere le guance accaldate con i capelli.
Giovanni la seguì, entrarono in un vicolo poco affollato. Una recinzione in metallo alla loro destra rendeva difficile vedere cosa ci fosse oltre, forse un hotel o una casa vacanze. A sinistra si innalzava una siepe di un paio di metri che oscurava completamente l’asfalto sotto i piedi, dall’altra parte riuscivano a sentire dei bambini giocare e correre.
Dritto davanti a loro, invece, c’era il mare tranquillo e taciturno che avevano intravisto in autostrada.
«Questo posto è strano.»
Giovanni sbirciò le sopracciglia aggrottate di lei dopo aver sentito quell’affermazione, sembrava alla ricerca di un errore negli alberi e nel cemento.
«Perché?»
Adele non rispose.
Annusava l’aria, sentiva l’estate fra le pieghe del vestito e in mezzo al sorriso del ragazzo che passeggiava accanto a sé.
Lasciava cadere le braccia avanti e indietro, i brividi le mordevano le spalle e le sconquassavano il respiro.
A volte finisci per non capire più chi sei, e il mondo riflette quello che hai dentro.
A volte, in una piccola cittadina che si affaccia su un mare piatto, ritrovi i pezzi che hai perso.
Quel posto non aveva niente di speciale, a detta di Adele, eppure, eppure c’era un’emozione che le scivolava dalle dita e che non sapeva come chiamare.
Non aveva forma, non aveva destinazione, lettere o etichette. Non sapeva dove inscatolarla.
Era come un fantasma, non c’era ma si percepiva.
Un passo dopo l’altro, finirono in mezzo a una strada piuttosto larga, colorata da mattoni rossi messi a lisca di pesce. C’erano moltissime persone. Famiglie, gruppi di adolescenti,
single che abbracciavano la solitudine o single che ne scappavano o, più semplicemente, solitari incalliti con l’avversione per il genere umano.
Camminavano tutti qua e là, dall’alto potevano sembrare un ammasso di formiche impazzite. E tutti, notò Giovanni, sorridevano.
Certo, ci sono sorrisi che contano più di altri, lo vedi da quanto brillano gli sguardi, ma ognuno in quel piccolo angolo di mondo sembrava in perfetta armonia con tutto ciò che lo circondava.
Piccoli alberi ben curati rendevano l’ambiente ancora più rilassante, e Giovanni si sentì un po’ a casa, in quel posto. Era come se ogni cosa fosse stata costruita per generare serenità, niente ti portava ad avere brutti pensieri. Una sorta di luogo incantato, di quelli che si leggono nei racconti per bambini.
Mentre la gente intorno a loro scorreva e si sviluppava in centinaia di radici nell’asfalto, i due giovani facevano fatica ad andare avanti. Si presero per mano, un gesto quasi involontario per sentirsi più al sicuro, e si guardarono intorno cercando di capire come mai avvertissero il perenne bisogno di respirare quell’aria e vivere quel momento.
Un angolo di strada venne catturato dagli occhi attenti di Adele che si aggrappò al braccio di Giovanni per attirare la sua attenzione. Gli indicò una folla di persone accalcate davanti a un cappello lasciato per terra da cui sbucava il torso nudo di un ragazzo sui trampoli, aveva il viso dipinto di giallo e verde e un occhio tatuato sul petto.
Si dimenava in modo buffo tra gli spettatori facendo finta di cadere, sembrava divertirsi sopra tutti gli applausi e le risate dei bambini sulle spalle dei loro papà per cercare di toccarlo.
A Giovanni fece tornare bambino quella scena, si ricordava benissimo le serate al circo con Ivana e Fabrizio, gli compravano sempre lo zucchero filato che lasciava puntualmente a metà. C’era troppo zucchero secondo lui, ma ogni anno riprovava ad assaggiarlo per vedere se i suoi gusti fossero cambiati. Fino ad ora, purtroppo, non erano cambiati.
Ci sono alcune cose che non cambiano, pensava, altre che mutano improvvisamente e altre che cedono per poi tornare come prima, solo con qualche crepa in più.
Altre ancora, però, non tornavano mai indietro.
Ad esempio, i sorrisi di suo padre o l’ebbrezza di un bacio di una ragazza sconosciuta.
Le lacrime che aveva versato quella notte del 2005.
L’orologio che aveva perso nella metro il giorno del compito di chimica.
L’odore di tabacco delle vecchie sigarette di Paolo.
C’erano cose che non sarebbero mai tornate indietro, ma lui voleva vivere quell’attimo, un attimo in cui aveva molte cose che probabilmente non avrebbe più avuto il giorno seguente.
E allora vivi, si diceva, vivi e non pensare a quello che hai perso.
Non pensare a chi ti ha spezzato il cuore, pensa a chi te lo può aggiustare di nuovo.
Adele era ancorata al suo braccio con gli occhi pieni di meraviglia e una sfumatura grigia che Giovanni non riuscì a decifrare. La guardò sorprendersi quando l’artista di strada scese con un balzo dai trampoli e li afferrò al volo poco prima che toccassero terra. La guardò allungare il collo quando tutti ficcarono le mani nel cappellino per lasciare qualche spicciolo e anche quando la magia dello spettacolo finì, lasciando la piazzetta vuota.
Si dispiacque un po’, ma iniziò di nuovo a camminare.
Il cielo aveva ingoiato il tramonto e rigettato una notte fresca con tante stelle brillanti, i lampioni dalle luci dorate si erano accesi con un leggero sfrigolio e i tavoli dei bar erano tutti occupati.
I loro sguardi si attaccavano ovunque, alle case, alle mattonelle, alla sabbia che si vedeva oltre il muretto e al mare che si vedeva oltre la sabbia.
Una piccola struttura a pelo d’acqua, una palafitta, stava in un angolo della piazza centrale da cui partiva Via Roma, la via principale di Follonica. Enormi travi di legno piantate nella bassa marea sorreggevano quella che sembrava una casa a tre piani con grandi finestre e un ponticello grazie al quale si poteva entrare.
Un’enorme scritta a neon pesava sul tetto piatto, Piccolo Mondo – ristorante, hotel.
Giovanni indicò la struttura a Adele. «Ti va di andare lì a mangiare?»
Lei assottigliò le palpebre, forse non lo vedeva bene, ma annuì.
Il ponte era davvero stretto, Giovanni ebbe paura di cadere per un secondo nonostante fosse a pochi metri d’altezza e si vedesse il fondo del mare, Adele saltellò verso la scritta con una leggerezza che lui non aveva mai visto, le sue spalle ossute si colorarono di blu e giurò di aver visto uno scintillio sbucare dalla sua anima.
Il Piccolo Mondo si presentava come una fila infinita di tavoli che si affacciavano sul mare, come in una barca pronta a salpare. Tutte le pareti erano state spogliate e rivestite di vetro.
Un cameriere coi baffi e il papillon impeccabile li fece sedere a un tavolino libero, quello all’angolo della sala, dedicato alle coppie. Adele si sentì un po’ a disagio, ma d’altronde l’impressione che davano era quella e non poteva farci niente.
Il mare soffocò i loro sguardi, era un tappeto liscio che nascondeva qualche orecchio vicino alla spiaggia. Tanti puntini neri correvano o camminavano sulla sabbia e Giovanni si immaginò di darle un bacio proprio lì, dove l’orizzonte mescola i sogni con gli incubi.
Adele aveva appoggiato il mento sul palmo della mano e si era persa nel velluto nero fra le onde.
«L’ho capito, sai.»
«Cosa?»
«Ho capito perché questo posto è strano.»
«E perché è strano?»
«Perché sento la malinconia legata a dei ricordi che non ho mai vissuto ma che mi mancano lo stesso. Mi manca qualcosa che non ho mai avuto.»
Lui accartocciò di poco la fronte.
«Come fai a sentire la mancanza di un vuoto che non puoi colmare?»
«Non lo so, la sento e basta. Ma so che i vuoti si possono colmare, in un modo o nell’altro.»
«Possiamo colmare i nostri vuoti col mare, almeno per stanotte.»
Lei, alla fine, sospirò.
«Almeno per stanotte.»

Il tempo di una sigarettaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora