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Sono nata nel 2020, nel bel mezzo di una pandemia globale. I miei genitori erano molto giovani: mia madre aveva solo vent'anni, mentre papà ne aveva ventitré e doveva ancora laurearsi in medicina.

Diciamo che sono stata un regalo inaspettato in un periodo in cui le persone hanno vissuto chiuse in casa per diverso tempo; una situazione che mostrava qualche punto in comune con quella che stiamo vivendo ora.

Io non ricordo quasi niente di quel periodo, ero troppo piccola ma mi hanno raccontato che ci sono voluti quasi tre anni per tornare alla normalità.
Per questo ho avuto un'infanzia tutto sommato tranquilla.

Quando ero piccola la gente era così felice di essersi buttata alle spalle il Covid19, così si chiamava quel virus tremendo che aveva decimato la popolazione, che venivano organizzate continuamente feste, manifestazioni, concerti, opere teatrali, qualsiasi cosa potesse aggregare le persone e farle stare insieme per condividere momenti gioiosi.

Mi raccontarono di quanto fosse frustrante uscire solo per fare la spesa, non poter andare a trovare i parenti e indossare sempre la mascherina, anche all'aperto.

Mamma era rimasta incinta a febbraio, appena prima dello scoppio della pandemia. Subito era partito un lockdown molto restrittivo e, non essendo conviventi, lei e papà non si erano potuti vedere per mesi.
Non appena le misure di contenimento si allentarono un minimo, la ritrovò col pancione già evidente.
Mamma si trasferì a casa di papà, che viveva ancora con la nonna e la zia, per poter vivere il resto della gravidanza insieme.

Sono nata alla fine di ottobre, quando ancora il nostro paese era diviso in zone rosse, arancioni, gialle. Ogni zona indicava quanto fossero rigide le restrizioni ed essere in quella rossa era davvero poco piacevole.

Quel virus era altamente contagioso; sembrava una normale influenza ma su molte persone aveva effetti letali e, anche su chi era sopravvissuto, lasciava strascichi a lungo termine.
Il mio nonno materno è morto proprio per questo. Aveva solo sessant'anni e non aveva problemi di salute a parte un po' d'asma; il virus lo ha ucciso nel giro di due settimane con una polmonite devastante. Mamma era disperata: era incinta di pochi mesi e lui si era ammalato proprio durante la prima ondata, la peggiore, quella che aveva colto il mondo impreparato. Lo aveva visto annaspare, quasi annegare, nella propria camera da letto. Gli ospedali erano saturi, i medici non sapevano cosa fare: non c'erano posti letto sufficienti nelle terapie intensive e le persone venivano ricoverate solo quando erano ormai in punto di morte. Anche per mio nonno era stato così. Erano venuti a prenderlo in ambulanza quando ormai non riusciva più a respirare e, una volta in ospedale, era sopravvissuto solo tre giorni.
Andare a vivere con papà, dopo una tragedia simile, per lei fu come cominciare una nuova vita.

Erano tutti felici di avermi lì. Ero un buon auspicio, una nuova vita che allietava quelle dei sopravvissuti.
Zia Pandia era piccola, aveva solo dieci anni, e viveva male il dover frequentare la scuola tramite computer, non poter uscire in strada a giocare coi suoi amici, non poter andarsene in giro anche da sola. Era uno spirito libero, non la si poteva rinchiudere.
Ogni tanto mi chiedo come l'avrebbe presa se fosse sopravvissuta alla catastrofe, a vivere nel complesso, in questo micromondo. Non so se avrebbe retto. Con ogni probabilità avrei dovuto dividere le pillole con lei.

Sentii voci concitate lungo le scale. Feci capolino da una finestra.
Cinque furgoni blindati neri si stavano dirigendo verso il complesso. Provviste in arrivo!
Gli addetti calarono il ponte sul fiume per farli passare. Sì, avevamo un vero ponte levatoio come negli antichi castelli; solo più robusto e moderno. Scesi in cortile, rimanendo nei pressi del mio condominio.
Ne scesero diversi uomini armati, che chiamavamo "uomini in nero" perché vestiti interamente di questo colore, da capo a piedi. Indossavano visiere per proteggere gli occhi e maschere antigas.
Venivano ogni tre mesi a portare rifornimenti provenienti da altri complessi e noi, a nostra volta, fornivamo loro ciò che riuscivamo a produrre.
Li rifornivamo di patate, uova, mais, vasellame, alcolici e medicinali basici. Il nostro era un complesso piccolo, rispetto ad altri.
C'erano delle vere e proprie città in cui erano presenti laboratori chimici, allevamenti, e fabbriche di vario tipo.

Quel che resta della LunaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora