CAPITOLO 26

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NAJWA’S POV
“Chi era al telefono?” mi chiede Alba sorridente, facendo capolino con due coppe enormi di gelato in mano.
Il suo sorriso, però, si spegne nel momento in cui mi vede, e la sua camminata accellera, fino ad arrivare a me.
“Najwa, chi era?” mi chiede ancora, nonostante io non trovi nemmeno il coraggio di guardarla negli occhi in queste condizioni, figuriamoci a risponderle.
Senza che me ne renda conto, Alba appoggia con poca delicatezza le coppe sul tavolo, creando un frastuono che mi fa spaventare e mi costringe ad alzare gli occhi, senza però farli incrociare con i suoi
“No…” sussurra flebilmente lei mentre sento il materasso del divano abbassarsi leggermente, segno che si è seduta di fianco a me.
Subito, sento una sua mano avvolgermi le spalle, ma subito mi alzo bruscamente e mi allontano, a causa del mio immenso orgoglio.
La sento sospirare, e da una parte vorrei davvero riuscire a permetterle di lasciarmi consolare, ma è una cosa più forte di me.
“Cosa vi siete dette?” mi chiede piano, cercando di non farmi pesare il tutto, e di questo el sono grata. 
“Lei. E’ stato praticamente un monologo” rispondo freddamente, cercando di nascondere tutte le mie emozioni.
“Cosa ha detto?” mi chiede lei con infinita pazienza.
“Non voglio parlarne” rispondo bruscamente come sempre.
E come sempre, subito dopo mi sento subito in colpa per averla trattata male per l’ennesima volta 
La sento sospirare nuovamente, mentre io mi dirigo verso il balcone con una sigaretta in bocca pronta da accendere.
Non riesco a pensare a nient’altro se non al dolore che provo in questo momento.
Forse la mia testa lo fa apposta, forse lo fa per ricordarmi tutto quello che ho fatto, come per punirmi.
Una forte fitta alla testa mi risveglia dai pensieri e mi costringe a appoggiarmi al muro per tenermi in piedi.
La stanchezza di questi ultimi giorni si fa sentire, considerando che avrò dormito sì e no 8 ore in due giorni.
Lentamente, entro di nuovo in casa e incontro Alba seduta esattamente dove l’avevo lasciata, mentre mangia una delle due coppe di gelato che ha preparato.
“Io vado. Ho fottutamente bisogno di stare da sola” dico senza nemmeno guardarla, vergognandomi di essermi fatta vedere così vulnerabile.
“D’accordo. Qua c’è la tua borsa” mi dice leggermente rassegnata mentre me la passa. 
Mi limito a sorriderle leggermente, ma dal modo in cui i suoi occhi si illuminano, deduco che ha capito tutto quello che il mio semplice gesto conteneva.

Sono appena uscita da casa della mia hermana, mentre il mal di testa non accenna a fermarsi.
Sono appena salita in macchina e un’improvvisa voglia di alcool si riversa in me, così guido decisa verso il primo bar aperto che trovo.
Non sono una che beve molto, solitamente odio perdere il controllo, ma ne ho bisogno.
Entro, sentendomi subito a disagio: la gente qua dentro è vestita in modo impeccabile, mentre io, beh, ho dei vestiti casual, sono struccata, spettinata e ho gli occhi rossi e gonfi per il pianto.
Ma dopotutto nemmeno mi interessa.
Mi dirigo diretta verso il bancone, dove un barista più giovane di me di almeno 10 anni mi accoglie con il sorriso.
Prego in qualsiasi lingua che nessuno in mezzo a questo casino mi riconosca, mi ero dimenticata di questo piccolo dettaglio. 

Sono tranquillamente seduta da sola al bancone, con lo sguardo fisso nel vuoto e il secondo bicchiere di non so nemmeno quale drink in mano, quando sento una mano posarsi sulla mia coscia.
Sto già per innervosirmi e per gridare a chiunque sia di andarsene e lasciarmi in pace, quando girando lo sguardo leggermente sfocato trovo di fianco a me un uomo della mia stessa età, all’incirca, che mi sorride con un sorriso a metà tra il dolce e il malizioso.
A primo impatto, questa visione mi spaventa, ma appena sento le sue prime parole mi tranquilllizzo.
“Ei, come stai? Cosa ci fa una bella donna come te in questo posto, da sola e con uno sguardo così triste?” mi chiede lui con un tono che mi sembra dolce, mentre io dentro di me combatto ancora per decidere se fidarmi un minimo o meno. 
“Non lo so. Non dovrei essere qui” dico sbuffando una leggera risata nervosa, dettata dalla confusione, dal dolore e dall'alcol.
Faccio per alzarmi, ma sento il mio braccio essere afferrato.
Sorpresa dalla forza dell’uomo, vengo respinta sullo sgabello.
“Non te ne andare, non ho cattive intenzioni. Anzi, perchè non ci prendiamo un drink?” mi chiede lui, mentre le sue intenzioni mi sembrano oneste, nonostante i modi leggermente bruschi.
“Una margarita” sussurro sorridendo leggermente, resa audace dall’alcol già nel mio corpo.
In tutta risposta, ricevo un sorriso smagliante dall’uomo. 
Si alza, sporgendosi verso il bancone per attirare l’attenzione del cameriere che avevo notato appena entrata, e con fare amichevole gli chiede i due drink.
Il modo altrettanto amichevole in cui il barista gli risponde mi tranquillizza un po’, ma in ogni caso non capisco come mai io sia ancora qui e non sia sulla strada per casa.
Una parte di me vorrebbe già essere sdraiata sul divano di casa, a fumarmi una sigaretta mentre faccio le coccole a Bala, ma l’altra parte mi trattiene qui.
Ed è la stessa parte a cui l’alcol ha dato il potere decisionale, la stessa che fa ripetere nella mia testa un ritornello continuo.
Esattamente la stessa che non smette di pensare a quella biondina che sta sconvolgendo le mie giornate anche da lontano.
L’uomo torna con i drink, e io inizio a bere, mentre lo ascolto parlare di cose che sinceramente non mi interessano minimamente.

Sento l’alcol fare sempre più effetto, mentre la testa inizia a girarmi leggermente.
I rumori arrivano ovattati alle mie orecchie, mentre nella mia mente passano un’infinità di immagini, come in un rullino fotografico.
Ma la cosa che mi sta distruggendo è che le immagini sono tutte sue: lei che ride sul set, lei con la parrucca di Zulema, nel mio camerino, lei che fa delle strane facce a Tito.
E infine l’ultima, quella che più mi rimane impressa, ma anche quella che più mi fa soffrire: lei, sul set nei panni di Macarena, svenuta dopo che l’ho tirata fuori dalla lavatrice, e le nostre labbra che si sfiorano per simulare una respirazione bocca a bocca.
E, come un fiume in piena, tutte le emozioni: le farfalle nello stomaco, la morbidezza delle sue labbra, il suo fiato leggero che mi provoca miliardi di brividi, i suoi occhi semi-aperti che si incastrano nei miei, ma soprattutto la certezza che qualcosa dentro di me sta nascendo.
Starei ore a rivivere queste scene, se solo il dolore non fosse troppo insopportabile.
Percepisco il mio respiro terribilmente corto e affannato, accompagnato da un senso di smarrimento e di impotenza. 
La testa continua a girarmi sempre più vorticosamente, e il mio sguardo si fissa in quello dell’uomo che è ancora seduto di fronte a me.
Senza che io abbia il controllo delle mie azioni, mi alzo di scatto, fiondandomi sulle labbra di questo sconosciuto, che ora mi sembrano la mia unica via di salvezza per non pensare alle labbra che vorrei baciare davvero. 
Solo nel momento in cui sento la sua mano avvicinarsi terribilmente al mio fondo schiena e la sua lingua spingere prepotentemente contro le mie labbra per cercare un accesso mi stacco.
Confusa e pentita corro via, non potendo più sopportare la situazione. 

Soffio sul drum leggermente incandescente che mi sono appena rollata.
Non è venuto un granchè a causa degli effetti dell’alcol, ma non mi importa.
Solitamente me ne tengo sempre un paio già rollati per le situazioni come questa, in cui il sapore forte del tabacco ha un effetto terapeutico su di me, rispetto alle classiche sigarette, ma devo averli finiti l’altro giorno.
La sensazione delle labbra di quell’uomo sulle mie non lascia la mia mente la sua mano sulla mia gamba e la sensazione ispida della sua barba, ma il suono di una notifica mi risveglia.
Corro verso la borsa, dove ho lasciato il telefono da quando sono rientrata.
Come immaginavo, è un messaggio di Teo, che mi avvisa che tra poco torna a casa, perciò digito velocemente una risposta e abbandono nuovamente il telefono sul fondo della borsa, pronta per tornare sul balcone.
Però, uno strano bigliettino verde attira la mia attenzione.
Lo raccolgo e lo fisso attentamente cercando di capire come ci sia arrivato nella mia borsa, mentre piano ritorno alla mia sdraio.
Sopra, appuntati frettolosamente in penna, trovo solo una serie di numeri.
La prima cosa che mi viene in mente, è che probabilmente quell’uomo deve avermi lasciato il suo numero di telefono, facendo scivolare il biglietto nella borsa mentre ero distratta.
Osservandolo bene, però, noto come la serie di numeri sia troppo lunga per essere un numero di telefono.
Rimango a fissarlo per qualche minuto, quando all’improvviso capisco. 

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RINASCITADove le storie prendono vita. Scoprilo ora