Un armistizio precario.

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Rimanemmo soli dopo settimane di lontananza, in realtà Mycroft, non era cambiato molto, era sempre attento nel vestire, anche nella situazione delicata che stava vivendo. Indossava un completo tre pezzi chiaro, la camicia rigorosamente bianca. Da quando lo avevo conosciuto era sempre stata la sua prima scelta. La cravatta marrone, spinata, annodata alla perfezione fermata dalla spilla argentata. Solo i calzoni sul ginocchio erano sformati, probabilmente per una fasciatura.

Lo avvicinai con le mani alte, in segno di resa.

"Perché non ti metti un po' comodo, ci siamo soltanto noi due."

Lui mi fissò contrariato. "Dovrei apparire trasandato? Lo sai che non mi piace."

"Perché non allenti la cravatta e indossi un maglione comodo e più caldo." Gli indicai il mio cashmere azzurro.

Sembrò inorridire. "Per favore, Laura, va bene così!" Sospirai, con lui la battaglia sull'abbigliamento era già persa in partenza.

"Posso sedermi?" Annuì rassegnato dalla mia presenza.

"Non sono così maleducato." Mi accomodai alla sua destra e presi il libro caduto a terra.

Glielo porsi, un gesto per invitarlo a reagire, infatti sbuffò avvilito. "Ci sarei riuscito anch'io."

"lo so è stata solo una gentilezza." Gli comparve una smorfia di dolore mentre cercava di sistemare la gamba. Ero dispiaciuta per quella improvvisa sofferenza. Cercai di essere accomodante, mi sistemai le maniche della maglia che si erano accorciate nel prendere il libro.

"Come va il ginocchio? Non bene visto il dolore che ti provoca."

"Ma guarda! Cos'è, una deduzione? Certo che fa male, grazie." Mi fissò stringendo il libro con troppo vigore, cercò di aprirlo, ma con le mani in quelle condizioni finì per arrendersi.

Era irritante, ma sapevo bene perché la mia vicinanza lo mettesse a disagio.

Mi stiracchiai nella vecchia poltrona prendendo tempo. La sofferenza che gli vedevo nel volto era quanto la mia nel vederlo chiudersi di nuovo nella sua solitudine. Non voleva la mia pietà ma era difficile che ignorassi il suo tormento, mi alzai presi il contenitore dei giocattoli di Rosie che avevo giudicato dell'altezza giusta, lo sistemai di fronte alla poltrona.

"Ora ci metterai la gamba e la terrai distesa." Gli indicai il cubo dei giochi con aria perentoria. "Non dire niente, altrimenti la prendo e ce la sbatto sopra. Ok?"

Ricevetti uno sguardo truce, ma capitolò e cercò di alzarla, il dolore lo fece desistere.

Mi avvicinai, gli piantai gli occhi addosso e visto che non diceva nulla, la presi delicatamente e gliela sistemai sul supporto improvvisato.

Strinse i denti, cercando di nascondere il dolore, si appoggiò con la nuca sulla spalliera e chiuse gli occhi. Soffriva e non riusciva a mascherarlo, mi feci coraggio e visto che tacitamente mi concedeva di accudirlo, gli tolsi la scarpa elegante e costosa dove sacrificava il suo piede gonfio e parzialmente fasciato. Non riuscivo a capire come potesse sopportare quel tormento.

"Portare una calzatura più comoda non sarebbe il caso?" Lo redarguii mantenendo la voce gentile per non innervosirlo.

"Non per me, sai che mi piace vestirmi in modo consono."

"E il risultato è la caviglia gonfia. Devi stare con la gamba in alto Stubborn english man!"

Riaprì un solo occhio e mi fissò ironico. "Hai migliorato il tuo inglese? Ma la pronuncia è ancora lontana dall'essere perfetta."

Le solitudini elettiveDove le storie prendono vita. Scoprilo ora