18. Oh amore

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A un cuore in pezzi
nessuno s'avvicini
senza l'alto privilegio
di aver sofferto altrettanto.
Emily Dickinson

Intorno a me c'era solo nebbia.
Poi, un sussurro.

"Eden"

Mi girai, solo vagamente consapevole del mio corpo che si muoveva per mia volontà. Ellen era in piedi tra la foschia, immobile ma fragile come un filo d'erba. Non era cambiata di una virgola dall'ultima volta che avevo visto il suo viso cereo e i capelli neri disordinati.

Ora erano ordinatamente sciolti sulle palle, ma gli occhi erano vuoti e vitrei.
Mi fissava con l'insistenza tipica dei bambini.

Il mio primo pensiero fu di correrle incontro, 7 anni completamente dimenticati. Tutto ciò che c'era stato e che c'era non aveva più importanza perché lei era lì, davanti a me. Solo una strana sensazione dalle profondità della mia mente mi impedì di farlo, inchiodandomi saldamente al suolo.

"Ellen" sussurrai quasi impercettibilmente, in qualche modo sapevo che poteva sentirmi. Nonostante ciò lei non si mosse, rimase ferma a guardarmi per un tempo che non seppi misurare. Poi all'improvviso accadde.

Un'ombra, identica a me in tutto e per tutto, la sovrastò. Aveva ancora i miei capelli castani prima che li tingessi, ma lo sguardo era irriconoscibile.
Puro e liquido odio, verso sé stessa, verso il mondo, verso il dolore.
L'ombra tagliò la gola a Ellen.

Il sangue sgorgò a fiotti, rosso rubino, mentre la bambina non emetteva nemmeno un suono, né un lamento né una preghiera.
Io, invece, urlai.

Mi svegliai di soprassalto, sudata e urlante. Il cuore batteva a perdifiato e il mio respiro era così irregolare che immaginai che sarei svenuta, ma non accadde. Mi voltai spaesata nella penombra della mia camera da letto.

I capelli candidi erano attaccati alla fronte e le coperte erano per metà cadute sul pavimento.
Era stato solo un sogno.

Un sogno così vivido che ne ricordavo perfettamente i particolari più insignificanti.
Ricordavo la visione di me che uccidevo Ellen senza battere ciglio.

Cercai il telefono sul comodino e vidi che indicava le 6 del mattino. Mi ero svegliata poco prima che suonasse la sveglia. Sospirai e caddi sul cuscino, ancora ansimante.

Erano anni che facevo quel sogno almeno 3 volte a settimana. Ormai sapevo perfettamente quale fosse il finale ma urlavo ogni volta quando mi vedevo tagliare la gola a Ellen.

I sogni sono sempre stati il mio più grande problema, l'unico modo per fuggire dalla realtà ma così pericolosi. Ricordavo perfettamente quando, circa tre settimane prima, avevo sognato Aster nel pieno di una tempesta di fulmini. All'epoca non conoscevo ancora il suo nome però mi aveva colpito la frase che aveva sussurrato prima che mi svegliassi.
Si, decisamente facevo sogni strani.

La sveglia suonò, irritandomi non poco. Alla fine la spensi e mi diressi in bagno per sciacquarmi il viso.
Allo specchio vidi una ragazza dai capelli bianchi come le mura di quella stanza, con profonde occhiaie causate dallo studio sfrenato e una confusione indicibile nei pensieri. La giornata passata con Aster aveva avuto conseguenze sia fisiche che mentali.

La mamma aveva passato tutto il pomeriggio a rimproverarmi per non averla avvertita e per averla fatta preoccupare, mentre nella mia testa regnava il più completo caos.

La confessione di Aster, il suo sfogo, la mia stupidità nel confessargli di mio padre. Il 'figlia della luna', il 'stella blu', il 'sei una buona amica'. Tutto questo creava un intrigo in cui in si riusciva a distinguere il capo e la coda. Non sapevo se essere dispiaciuta per lui, pentirmi di quello che avevo fatto, essere felice perché i nostri dolori ci avevano legato. Non sapevo se volevo abituarmi alla sensazione di averlo vicino.

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