Capitolo 19

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Man mano che ci avviciniamo al carcere, mi sento sempre più inquieta.

É stata una pessima idea, penso mentre mia madre parcheggia e mi rivolge un veloce sguardo prima di scendere dall'auto. Io esito.

Perché ho accettato di fare questa maledetta cosa?

In me cresce sempre di più l'ansia mentre il mio cuore comincia a battere all'impazzata.

Passiamo i controlli e una guardia ci accompagna fino alla sala in cui lo incontreremo tra poco. Mia sorella, affianco a me, mi stringe la mano intrecciata alla mia e fa un sospiro tremante. Non posso immaginare quanto debba essere ancora più difficile per lei, che non ha mai praticamente conosciuto suo padre e che a malapena se lo deve ricordare.

E, ora, lo vedrà dopo tanti anni, in prigione. Perché suo padre é un cazzo di detenuto.

Cerco di distrarmi guardandomi in giro. L'enorme sala é completamente grigia, tranne per un unico muro colorato, che ritrae un prato verde e e un cielo azzurrino e delle sagome stilizzate con dei sorrisi felici. Deve essere per mettere a loro agio i bambini che vengono a trovare i loro padri.

Anche se mi chiedo chi porterebbe il proprio figlio qui, per fargli vedere il suo genitore detenuto? Io sono contenta che mia madre con me non l'abbia fatto e che abbia aspettato che diventassi abbastanza grande per decidere da sola. Ma, ovviamente, non posso sapere quale sia la situazione famigliare di ognuno di questi uomini che sono seduti su questi neutri tavoli rotondi. La giustizia non funziona sempre come dovrebbe e chissà, forse qualcuno di loro nonostante tutto é innocente o non ha commesso un crimine di grande gravità e ha bisogno di qualcuno che creda ancora in lui. Ha bisogno di sapere che c'é qualcuno là fuori a cui importa di lui.

É questo che prova mio padre?

Faccio un respiro profondo e comincio a torturarmi le dita. Quest'attesa mi sta uccidendo.

Proprio quando penso che potrei morire se non succede qualcosa, dalla porta in fondo alla sala compare un uomo insieme ad un'altra guardia. Sento subito che é lui.

Vestito con una semplice maglietta che dovrebbe essere bianca ma che sembra più di un grigia e un paio di pantaloni. Si siede e appoggia le braccia sul tavolo rotondo, i polsi ammanettati.

Non é cambiato molto rispetto a come me lo ricordavo io, solo qualche traccia di bianco tra i suoi folti capelli e le rughe che gli solcano il viso più marcate.

Ci rivolge un sorriso sincero.

Mia madre contraccambia mentre mia sorella credo che sia sul punto di mettersi a piangere mentre mi stritola la mano da sotto il tavolo. Io non faccio niente, rimango semplicemente lì immobile, senza pensare a nulla in particolare. Ci fissiamo negli occhi per un lungo momento. Ha gli occhi di un colore azzurro cielo. Proprio come i miei, gli occhi che detesto sono proprio uguali ai miei. Deglutisco.

- Ciao bambolina - dice infine. La sua voce è diversa, invece, più profonda e più dura. Arrochita come se non la usasse spesso ma in fondo si trova in prigione, non é che abbia molto di cui parlare.

Bambolina, mi chiamava sempre così quando ero piccola perché diceva che ero bellissima e assomigliavo ad una bambola di porcellana.

- Come stai? - continua di fronte al mio silenzio. - É da un po' che non ci vediamo.

Nove anni, per l'esattezza. Non che i primi otto tu sia stato costantemente presente.

- Come puoi parlarmi così come se non fosse successo niente? - gli chiedo fredda. Il suo sorriso si spegne lentamente.

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