XXV. Homo homini lupus - prima parte

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Aisha prese il fucile e controllò la canna. Non aveva una bacchetta a disposizione, ma fece tutto il possibile per assicurarsi che non fosse ostruita. Dopo aver finito la pulizia, mise il fucile a terra e innestò la spalla scanalata sul supporto, infine sistemò il mirino telescopico.

McMillan-Arasake Mark-4 o più semplicemente Moloch, il suo nome in codice. Se lo ripeté in testa come una filastrocca. Fucile d'assalto adottato dalle Specnaz russe quando era ancora in fase di sperimentazione. L'arma preferita della Legione nella sua versione migliorata, col mirino a puntamento laser e la tecnologia a energia assistita che permetteva ai soldati di collegare l'arma ai visori. Non si era aspettata di trovare a Mosca un vecchio modello, lucido e senza un graffio, ma che Ilyas lo avesse preso tra tutte le armi dell'armeria della druzina questo, sì, forse se l'era aspettato.

Inserì il caricatore, controllò la leva dell'otturatore. Mandò il primo proiettile nella camera di sparo.

Sasha la stava fissando.

«Aisha...»

La voce di Ilyas, ridotta a un sibilo esangue, la raggiunse quando si alzò e si mise il fucile in spalla dopo essersi assicurata di aver inserito la sicura. Suo fratello era seduto a terra, si teneva la coscia sanguinante. Continuava a guardarla con quello sguardo in cui si mischiava la rabbia all'apprensione.

«Andrà tutto bene» gli disse lei. «Tu resta qui con l'altro fucile.»

L'arma era leggera sulla spalla; più leggera di quanto si aspettasse.

Uscì dal passaggio insieme a Sasha dopo aver preso anche una pistola.

«Bene.» L'altro inspirò profondamente. «Vado. Li porto qui. Quanti colpi hai?»

«Cinque nel fucile.»

«Basteranno.»

Aisha non capì se fosse una domanda o un'affermazione, in ogni caso assentì.

Lui rispose con un cenno del capo. Nel vederlo voltarsi, lei aprì la bocca e la voce le uscì senza che avesse dato un vero e proprio ordine al cervello: «Sasha?»

Era strana: una voce strana che non le apparteneva, incerta, esitante. Impaurita, forse.

«Ehi.» Lui si voltò e con sorpresa lei si accorse che stava sorridendo. Un sorriso fievole ma deciso, che sembrava moltiplicare le sue lentiggini. «L'hai detto anche tu: andrà tutto bene. Mi fido di te.»

Con quelle parole iniziò a scendere i gradini. Una volta nell'arena Aisha lo vide trasformarsi e immergersi nelle ombre della fabbrica.

Rimase sola.

Aveva piovuto mentre si trovavano nel passaggio. Un singhiozzante scrosciare contro il tetto di lamiera che le aveva ricordato il rumore di una slavina in movimento. La pioggia era filtrata attraverso il buco del soffitto, lo stesso che aveva fatto penetrare il lume della luna durante l'iniziazione di Soraya Vosikieva. Il centro dell'arena era bagnato; l'acqua risplendeva di un velo d'argento. Si sorprese nel vedere che la luna era ora del tutto visibile, circondata da rade nuvole. La sua luce sembrava in agonia, ma sarebbe bastata per illuminare i corpi - i bersagli.

Non ho paura, pensò e strinse forte le dita attorno all'impugnatura del fucile. Sono figlia di una lupa. Non ho paura di niente.

Per un attimo rivide il volto di sua madre, sfuggente e diradato come spesso appariva nella foschia dei suoi ricordi. Il suo bel volto dal sorriso triste, gli occhi verdi riverberanti come pietre fossili. Nei suoi sogni pronunciava parole che si sfrangiavano come lapilli di cenere.

Promettimi che vivrai...

Sentì un tonfo. Una porta che sbatteva. Passi nel buio.

Ricordati di respirare, si disse mentre imbracciava il fucile e sganciava la sicura.

Wolfen - Vol. 1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora