XXXII. Libertà - prima parte

118 9 17
                                    

Lukas osservò criticamente le macchie sulla canna della Makarov. Stava diventando poco diligente; non era mai capitato che lasciasse le armi in quello stato. Suo nonno altro che affogarlo nell'Amur: gli avrebbe bruciato le chiappe con la sua Tokarev per poi infilzarlo fino alla gola con un kalashnikov.

«Lukas, mi hai sentito?»

«Sì, sì.» Fece un gesto spazientito che lei non poteva vedere. Non aveva attivato la proiezione ologrammica per quella telefonata. «Domani sera alle sette dal Vor. Certo che sta organizzando riunioni su riunioni questi giorni. Dici che gli è presa la nostalgia per i soviet? Si sa che i ricchi ogni tanto si fanno venire i sensi di colpa e gli sghiribizzi democratici.»

Il sospiro di Raisa si sentì dall'altra parte della linea. «Non scherzare.»

«Almeno c'è qualcuno che lo fa.»

«La situazione è delicata. Ljuba sta dispiegando tutti i suoi mezzi, ma ci sono cortine di ferro più impenetrabili di altre.»

Anche lei a forza di frequentare gli alti ranghi era diventata sibillina.

«Io direi più che c'è "una cupola nel cielo di Mosca"» disse lui ricordando un vecchio detto per indicare il potere mafioso quando ancora non era diventato la regola nella società.

«Ci sarai?»

«Non penso di potermi rifiutare.»

«Ti vengo a prendere io.»

«Ci sarà anche Petrov per caso?»

Seguì un momento di silenzio, poi la voce di Raisa ritornò a riempire la stanza, più fredda e atona. «Non lo so.»

«Immagino che il Vor voglia le forze di tutti ora che siamo accerchiati da più lati e si sa che i clan siberiani...»

«Vedremo. A domani» tagliò corto lei e chiuse la chiamata in quella maniera brusca come ormai interrompeva qualsiasi conversazione in cui si tirava in mezzo Yuri Petrov.

La vibrazione azzurrina del telefono oscillò e si dissolse. Lukas guardò l'orario che lampeggiava sullo schermo. Era ora di pulire la Makarov.

La sera era scesa, pallida e silente dietro le finestre dell'appartamento. Una luminosità chiara ancora indugiava nel cielo color cobalto. Era presto, tutto sommato: aveva appena cenato e non aveva intenzione di uscire.

Recuperò dalla stanza dove teneva le armi i solventi, l'olio lubrificante, i diluenti secchi e infine lo scovolo di crine e rame che suo nonno gli raccomandava sempre di usare con moderazione se non voleva rovinare l'anima della canna. L'anima, la chiamava proprio così. Portò tutto l'armamentario sul bancone della cucina affacciato sul salotto e prese la Makarov. Lasciò scorrere sulla canna una pezzuola di cotone, la passò sul carrello e il fusto. Anche la camera di cartuccia e la rampa di alimentazione avevano bisogno di una ripulita, constatò. Non bisognava lasciare scorie.

Mentre puliva la pistola, si mise a pensare alla casa nei pressi dell'Amur dove viveva con suo nonno Andrej dopo la morte di sua madre e la fuga di suo padre. Ricordò la precisione maniacale con cui suo nonno teneva le armi. Quelle utilizzate per scopi criminali si trovavano in cantina e in vari nascondigli sparsi per il cortile; ciascuna di esse portava incisa l'immagine di una croce o di un antico santo protettore ed era stata "battezzata" con il sangue del primo nemico ucciso, uomo o vulkulaki che fosse. Quelle per la caccia invece erano custodite quasi come reliquie in una zona speciale chiamata "altare", dove stavano le cinture istoriate degli antenati del loro clan con appesi coltelli da caccia e borse con vari talismani, oggetti impregnati dell'antica magia pagana della steppa. Tra le cinture c'era anche quella di sua nonna Elizaveta, l'umana che suo nonno aveva sposato sfidando ogni regola e che Lukas non aveva mai conosciuto. Un'immagine che gli era rimasta impressa della sua infanzia, più di altre, era quella di suo nonno che sfiorava la cintura della defunta moglie tutte le mattine, a mo' di rituale, forse; sembrava ogni volta accarezzarla.

Wolfen - Vol. 1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora