XXVII. In visita - prima parte

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Soraya andò a trovare Leda già il giorno dopo. La notte dell'attacco Inessa l'aveva riportata mezza svenuta a casa dopo essersi assicurata che l'altra fosse abbastanza lucida per rientrare. Sua sorella le aveva raccontato che Leda non le aveva detto niente. Quando si era svegliata, sembrava allucinata, l'espressione persa di una "sfollata dalla realtà" – così l'aveva descritta. Soraya si era chiesta quanto la botta in testa l'avesse inibita, non solo nelle azioni, anche nei pensieri.

«Cosa ci fai qui?» le chiese quel giorno, nel giardino della dimora dei Dazla a Mosca, mentre sopra di loro il cielo era grigio come asfalto, grigio e livido come un lenzuolo funebre.

«Sono venuta per spiegarti.»

Soraya si era preparata un discorso o almeno aveva tentato. Era stato un miracolo che, quando l'avevano trovata, gli uomini di suo padre non si fossero accorti di Leda; lei aveva detto che era incappata solo in Ivan e tutti le avevano creduto, persino suo padre, che l'aveva rimproverata per essere andata al Cremlino, ma più di quello non aveva fatto, troppo impegnato ad arginare i danni di quella notte. Soraya non si era azzardata a dirgli nulla su Leda. Non sapeva cosa lui avrebbe potuto fare: manipolarle la memoria grazie al potere di Bogdan o ordinare di ucciderla?

Molto tempo prima, quando Soraya gli aveva rivelato di vedere la figlia di Mikhail Dazla come più di un'amica, suo padre le aveva proibito di frequentarla e solo dopo molto tempo aveva accettato la relazione, ma a una condizione, anzi ben due: che Soraya non le avrebbe mai rivelato la sua seconda natura e che sarebbe stata pronta a rinunciare a lei appena avesse compiuto ventuno anni.

A conti fatti, visto quanto successo la scorsa notte, lei non era sicura di aver mantenuto neanche una di quelle promesse.

In ogni caso, ora la cosa più importante era fare in modo che Leda sapesse mantenere il segreto.

«Direi di sì.» Leda si stava grattando l'interno dell'avambraccio e non la guardava. «Ma non pensavo di vederti così presto.»

«Volevo assicurarmi che stessi bene.»

L'altra le scoccò un'occhiata da sotto le palpebre e tornò a guardarsi il braccio. Si teneva a distanza e stava in silenzio, rigida e nervosa, un atteggiamento che Soraya le aveva visto poche volte addosso.

Ricordò con strana lucidità, proprio in quel momento, il periodo in cui si erano conosciute. Avevano entrambe quattordici anni, quasi quindici, ma Leda era più alta, i seni già sbocciati, i fianchi però ancora asciutti e spigolosi come quelli di un ragazzino accosciato. Portava i capelli lunghi al tempo, lucidi e folti fino alle reni, e aveva il vezzo di abbassare il capo per rialzarlo di scatto quando ascoltava gli altri, spiazzandoli per la subitaneità del gesto. Quando rideva lo faceva con tutti i denti e la sua voce era schietta quanto il suo viso dagli zigomi alti e la bocca dal labbro inferiore lievemente più carnoso.

La mia amica, l'aveva presentata Inessa quando l'aveva introdotta in casa – la loro vera casa, a San Pietroburgo. Si erano conosciute a una festa tra vory, di quelle che Inessa frequentava mentre Soraya restava a casa, preferendo la compagnia del silenzio alla presenza di altre persone che, con le loro emozioni e pensieri, avrebbero potuto risvegliare il suo potere come fa il vento riattizzando una fiamma sotto le ceneri.

L'amicizia tra sua sorella e la figlia minore del Vor Dazla era sorta naturale con la spontaneità dei primi insopprimibili legami adolescenziali. Avevano scoperto di avere tanti interessi in comune: il pattinaggio e il tennis, che entrambe praticavano e seguivano con passione, i cavalli, le scampagnate per cercare funghi, le feste, le armi e infine i ragazzi. Passavano i pomeriggi impegnate nelle attività più disparate nella tenuta dei suoi genitori, l'antico Palazzo Sheremetev affacciato sul fiume Fontanka. Soraya, chiusa in camera o in biblioteca, sentiva le loro risate nei corridoi o le loro urla in giardino mentre giocavano a tennis. Ogni tanto si affacciava alla finestra e le osservava: Inessa, agile e impaziente, che dava un gran colpo alla palla e mancava la rete, imprecava e brandiva arrabbiata la racchetta; e la sua amica che si muoveva nel campo con insospettabile grazia, già così alta, la figura flessuosa di una ginnasta, le gambe affusolate e i gesti angolosi, lo sguardo che le fiammeggiava di una strana determinazione quando colpiva la palla. Soraya si soffermava sui suoi capelli, che l'altra teneva legati durante le partite: capelli dello stesso colore dei suoi occhi, di un caldo castano dorato, lisci sulla frangia, mossi ai lati del viso e ricci sulla nuca, quella nuca che si offriva come nuda alla luce di quei pigri pomeriggi assolati.

Wolfen - Vol. 1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora