cinque *

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Harry Styles.

Il tempo passa

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Il tempo passa. Anche quando sembra impossibile.
Anche quando il rintocco di ogni secondo fa male come il sangue che pulsa nelle ferite. Passa in maniera disuguale, tra strani scarti e bonacce prolungate, ma passa.

Persino per me.

Des sbatté il pugno sul tavolo. «Basta, Harry! Ti rispedisco a casa».

Alzai gli occhi dai cereali che rimescolavo meditabondo invece di mangiarli, e lo guardai sbalordito.

Non avevo seguito la conversazione - in realtà, non mi ero neanche accorto che stessimo parlando - e non capivo a cosa si riferisse.

«Sono già a casa», mormorai confuso.

«Ti mando da Anne, a Jacksonville», precisò.

Mi guardò esasperato, mentre rimuginavo sul senso della sua frase. «Cosa ho fatto?». Mi sentii crollare.

Non era giusto. Da quattro mesi il mio comportamento era irreprensibile. Dopo la prima settimana, di cui nessuno di noi parlava più, non avevo perso un giorno di scuola né di lavoro. I miei voti erano perfetti. Non infrangevo mai il coprifuoco... be', non facevo mai nulla che mi costringesse a infrangerlo. Soltanto in rare occasioni servivo avanzi anziché cucinare.

Des aggrottò le sopracciglia.

«Non hai fatto niente. Questo è il problema. Non fai niente, mai».

«Preferisci che mi cacci nei guai?», chiesi, stralunato e confuso. Mi sforzai di prestare attenzione. Non era facile. Ero talmente abituato a distrarmi, che mi sentii le orecchie otturate.

«Un guaio sarebbe meglio di questa situazione... tieni sempre il muso!».

Mi sentii punzecchiato. Avevo badato a evitare qualsiasi tipo di fastidio, incluso il broncio.

«Non tengo nessun muso». «Ho sbagliato parola», si sforzò di ammettere. «Tenere il muso significherebbe comunque che fai qualcosa. Sei... come spento. Ecco cosa volevo dire».

L'accusa mi centrò in pieno. Sospirai e cercai di rispondere con maggiore energia.

«Mi dispiace, papà». Le scuse suonavano poco convincenti persino a me. Avevo pensato di poterlo raggirare. L'obiettivo dei miei sforzi era evitare che Des soffrisse. Che delusione pensare che non fosse servito a niente.

«Non voglio che ti scusi». «Allora dimmi cosa vuoi che faccia».

«Harry...», disse, e restò in attesa di una mia reazione. «Tesoro, non sei il primo a vivere una situazione del genere, lo sai anche tu».

«Certo». L'espressione con cui accompagnai le parole era debole e poco efficace.

«Senti, piccolo. Penso che... forse hai bisogno d'aiuto». «In che senso?».

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