Un giorno come tutti gli altri.

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Sentii una mano che mi scosse dal mio sonno e aprii gli occhi di colpo. Spaesata e confusa guardai la ragazza che mi fissava incuriosita.
«Ehi, ti sei addormentata e non riuscivamo più a svegliarti. Stai bene?» disse la ragazza.
Mi accorsi che al suo fianco c'era un uomo, forse il conducente dell'autobus, che mi guardava con uno sguardo di disapprovazione.
«Ehm...Si sto bene» dissi fingendo un sorriso per tranquillizzarla ma lei non abboccò.
«Sicura? Vieni ti accompagno, a quanto pare andiamo nella stessa scuola» disse la ragazza premurosamente. Si avvicinò e poi mi disse «Ah, scusa non mi sono presentata, mi chiamo Silvia. E tu?» La guardai. Non sapevo che dirle per farle capire che stavo bene, volevo solo andarmene da qui.
Mi arresi e dissi «Mi chiamo Alice» Aspettavo che dopo averle detto come mi chiamo se ne andasse ma evidentemente non ne aveva intenzione.
«Che bel nome! Dai vieni che ti accompagno se no facciamo tardi» disse allegra. Non aveva capito che non volevo il suo aiuto? Volevo andare in quella scuola e farmi quelle cinque ore di lezione il più in fretta possibile e poi tornarmene a casa.
«Non serve, posso andare da sola» Le dissi.
Presi le mie cose e scesi dall'autobus. Accelerai il passo in modo che non potesse raggiungermi ed entrai a scuola. Non mi voltai nemmeno una volta. Ero stata scortese con quella ragazza che cercava solo di essere gentile ma io non avevo bisogno di fare nuove conoscenze. O forse non volevo.

Come tutte le mattine entrai in ritardo in classe e mi presi un richiamo dalla professoressa. Mi diressi al mio posto e aprii il libro di italiano. Vicino a me, Matteo, mi guardò per un secondo e poi riprese quello che stava facendo. Odiavo quando mi fissava ma non ho mai avuto il coraggio di chiedergli il perchè lo facesse. Era un tipo strano. Quando suonò la ricreazione la classe si svuotò rumorosamente e rimasi sola. Presi il libro dalla borsa e mi immersi nella lettura. Ero così rapita da quel libro che non mi accorsi che qualcuno si era avvicinato a me. Sobbalzai dallo spavento e mi accorsi che era la ragazza di stamattina.
«Ehi, stavi leggendo?» mi chiese.
Aspetta, com'è che si chiamava? Ah si, Silvia. Questa ragazza non sa proprio quando smetterla di farsi gli affari miei.
«Ascolta, non voglio essere maleducata ma sono affari miei quello che faccio. Non so perchè tu stia cercando di fare conversazione con me e neanche mi interessa. Voglio essere lasciata in pace.» dissi tutto d'un fiato. Ora almeno la smetterà di starmi addosso.
«Adesso capisco perchè le persone ti stanno alla larga» disse e se ne andò.
Le sue parole non mi colpirono minimamente. Sapevo già di essere acida e scorbutica con le persone ed era per questo che nessuno si avvicinava mai a me. Ma alla fine è quello che volevo.
La campanella suonò e tutti rientrarono in classe. Sospirai, mancavano ancora due ore.

Quando ritornai a casa ero stanca e avevo sonno. Mia madre mi aveva preparato da mangiare ma non avevo fame. Però lei fu così insistente e non mi diede un attimo di pace che alla fine mi ritrovai a mangiare per esasperazione.
Mi rinchiusi in camera mia, presi un foglio di carta, una penna e mi misi a disegnare.
Sentii bussare alla porta e mi accorsi che era mio padre. Mi guardò e si avvicinò pian piano a me.
«Dovremmo andare dallo psicologo»disse.
Posai il disegno sul letto, mi alzai e mi diressi verso la macchina.
Non potevo sopportare il modo in cui mi guardava. Mi trattava come una bambina malata. Io non sono né malata né una bambina. Non voglio la compassione di nessuno, non mi serve. Non ho bisogno che le persone si preoccupino per me, so badare a me stessa.
Arrivammo dallo specialista.
Mio padre mi aspettò in macchina e io entrai. Non mi era mai piaciuto questo posto. Il forte odore di disinfettante mi provocava la nausea. Era una tortura ritornare qui. Bussai e aspettai che mi facesse cenno di entrare. Mi sorrise e mi fece cenno di accomodarmi su una piccola poltroncina. Mi sedetti e aspettai con impazienza che iniziasse, volevo tornarmene a casa il più in fretta possibile.
«Ciao, allora come stai? È da un po' che non ci vediamo. Raccontami come sono andate queste due settimane» mi disse con voce cordiale.
Non avevo voglia di intrattenere un conversazione con lui e così gli risposi un semplice 'bene' e un 'niente di che'.
«Alice, ascolta. So che è difficile per te parlare con qualcuno e dire come ti senti però fai uno sforzo. Non puoi tenerti tutto dentro. Hai bisogno di parlare con qualcuno se no questo dolore che senti non andrà mai via. Non accumulare tutto perchè prima o poi scoppierai e sarà peggio» disse.
Lo guardai. Aveva ragione, lo sapevo, ma non ci riuscivo. Per me era semplicemente impossibile parlare con qualcuno. Ho passato questi due anni rinchiusa nella mia camera, versando lacrime e guardando un punto indefinito della stanza. Ma più i giorni passavano, più mi chiudevo in me stessa e ormai è troppo tardi perchè ho costruito una corazza che via via è diventata sempre più dura. Ed è così spessa che nessuno riuscirà mai ad abbatterla.
«Non ho niente da dirle.» dissi senplicemente.
Non avrei mai parlato con nessuno del mio dolore. Era solo mio e nessuno era in grado di comprenderlo.

La solitudine incontrò l'amoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora