La punizione.

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Quando arrivai davanti alla mia classe lo salutai e feci un respiro profondo. Era il momento di rientrare in classe dopo esser stata per più di un'ora fuori, chissà cosa mi sarebbe aspettato adesso. Il professore di matematica odia questo genere di cose e non me la farà passare liscia. Sospirai e aprii la porta, lentamente e mi ritrovai il preside davanti che mi guardava con uno sguardo severo. Sicuramente gli avrà raccontato tutto senza che io abbia la possibilità di difendermi. Fantastico, sono spacciata.
«Signorina, le sembra questa l'ora di ritornare?» disse il preside, severamente.
«Mi dispiace» risposi, come un agnellino ferito.
Dovevo fare del mio meglio per apparire triste e pentita della mia azione e ne sarei uscita illesa.
«Questo non è un albergo dove ognuno fa quello che vuole, ci sono delle regole che vanno rispettate. E se non le si rispettano ci saranno delle conseguenze.» concluse, spazientito.
«Non era mia intenzione star via per tutto questo tempo» dissi guardando in basso facendo del mio meglio per apparire pentita.
«Non ne dubito ma come massima autorità di questa scuola sono costretto a prendere dei provvedimenti per questo tuo comportamento deplorevole, e non sarà piacevole.» disse, in tono severo.
Era arrivata la mia fine, niente di quello che avessi detto o fatto avrebbe fatto la differenza. Non mi restava altro da fare che prendermi la punizione che mi avrebbe assegnato e sperare che non sia troppo severa.
«Ora mi segua nel mio ufficio, finiremo di parlarne e chiamerò i suoi genitori per decidere cosa fare con lei» concluse e si avviò verso il suo ufficio.
Questa reazione mi sembrava troppo esagerata, non ho commesso nessun delitto. Per una piccolissima mancanza mi manderanno al patibolo. È crudele.

Passai un'ora nell'ufficio del preside, seduta su una poltrona di fronte a lui, sventolandomi con un piccolo foglio di carta. Faceva un caldo asfissiante lì dentro ma non sembrava importargli, era immerso nel suo lavoro e non mi degnava nemmeno di uno sguardo. Aspettai con impazienza l'arrivo dei miei genitori, sarei potuta impazzire da un momento all'altro. L'ufficio era troppo silenzioso e il continuo ticchettio dei tasti premuti sulla tastiera mi provocava il mal di testa. Il forte senso di nausea ormai accompagnava le mie giornate. Finalmente bussarono alla porta e mia madre entrò. Mi lanciò un'occhiata severa e strinse la mano al preside, sedendosi affianco a me. Non mi degnò di un'altra occhiata. Era arrabbiata, si capiva benissimo, e oltre alla punizione avrei dovuto fare i conti anche con mia mamma che mi avrebbe bombardato di domande e rimproverata fino alla nausea. Per mia fortuna il preside mi congedò e così uscii, gliene ero grata, non avrei resistito un altro minuto chiusa in quella stanza. Restai vicino alla porta, come se stessi facendo da palo mentre in quella stanza si decideva la mia sorte. E restare lì, con le mani in mano, impotente di fare qualsiasi cosa mi deprimeva.
Mi arrivò un messaggio di Silvia, 'devo parlarti' . Guardai il messaggio, fissandolo, incerta su cosa fare. Era proprio il momento sbagliato per chiarire visto che la mia vita stava cadendo in pezzi. Ma non volevo che lei stesse male per colpa mia quando invece dovrebbe essere al settimo cielo e urlare il suo amore per Giorgio ai quattro venti. Sapevo che se non avessi parlato con lei avrei sempre avuto questo senso di colpa che mi schiacciava il petto. Così le risposi 'Vediamoci tra un'ora all'uscita di scuola' .
E spensi il telefono proprio nel momento in cui il preside e mia madre uscivano dalla stanza. Il preside mi fece un cenno di saluto che io educatamente ricambiai e poi se ne andò. Guardai mia madre e vidi che mi stava guardando con aria contrariata.
«Alice, mi hai deluso parecchio oggi. Non aspettarti che per questa tua bravata non ci saranno delle conseguenze. E adesso vieni a casa.» concluse severamente.
«Ma devo aspettare Silvia!» piagnucolai.
«Non contraddirmi e sali in macchina!» urlò mia madre.
E così salii in macchina arrabbiata, sbattendo la portiera dell'auto con tutta la frustrazione di cui ero capace. Ma dentro era molta di più, sentivo una rabbia e una frustrazione immense che cominciavano a logorarmi dentro.

Arrivammo a casa e appena mia madre spense il motore dell'auto scesi di corsa e senza ascoltarla corsi in camera mia e mi buttai sul letto. Avevo bisogno di prendere a pugni qualcosa, di sfogarmi. Iniziai a prendere a pugni il letto quando mia madre entrò, senza permesso, nella mia stanza. Mi guardò con indifferenza e si avvicinò al letto.
«Non pensare che con questo teatrino tu mi convinca ad avere pietà di te. I tuoi voti sono calati, sei sempre distratta, chiedi di andare in bagno e poi stai via tutta l'ora. Cosa ti sta succedendo? Perchè fai così? Oggi hai superato il limite e passino i brutti voti ma questo no. Da oggi sei in punizione. Uscirai solo per andare a scuola e appena avrai finito verrò a prenderti e ritornerai a casa. E questo» si avvicinò al letto e prese il mio cellulare.
Mi protesi in avanti per riprenderlo ma lei lo aveva già messo in tasca.
«non lo rivedrai finché i tuoi voti non aumenteranno e i professori mi chiameranno per congratularsi di quanto sei migliorata» concluse.
«Non succederà mai» dissi, amareggiata.
«E allora non lo rivedrai mai» disse e chiuse la porta alle sue spalle.
Mi incazzai così tanto che presi il cuscino e cominciai ad urlare, sfogando la mia frustrazione. Era tutto uno schifo, la mia vita era orribile. Ero prigioniera in casa mia, senza possibilità di fuga. Odiavo quella scuola. Odiavo i professori. Odiavo il preside. Odiavo mia madre che mi obbligava a stare chiusa in casa senza darmi la possibilità di spiegare come sono andate davvero le cose. Odiavo Valentina che ci provava costantemente con Edoardo. Odiavo averle lasciato campo libero visto che non potevo vederlo oltre l'orario scolastico. Odiavo vivere questa vita che non fa altro che darmi delusioni su delusioni. Ma più di ogni altra cosa odiavo me stessa per essere come sono. Sbagliavo sempre tutto, ero solo un disastro che cammina e che distrugge tutto ciò che incontra. Ho fatto tante scelte sbagliate nella vita, ho dato troppo a chi non si meritava niente e ho cercato di essere sempre disponibile con gli altri, ma non è bastato. La verità è che non ero abbastanza, ho commesso tanti errori, di alcuni me ne pento, di altri no perchè mi hanno aiutata a crescere. Non sono una ragazza facile da comprendere, nemmeno i miei genitori ci riescono, per questo per anni mi hanno sottoposto a sedute dallo psicologo, per capire cosa non va in me. Ma lo psicologo non può capire come mi sento, posso parlarci e raccontargli della mia vita, dei miei errori, ma lui mi darà sempre e solo un giudizio in base alle sue conoscenze. Non sa come ci si sente quando si soffre per amore, non sa cosa significa sentirsi soli, abbandonati al proprio destino, come naufraghi che hanno perso la loro rotta. Per quello non ne parlavo con nessuno, tenevo il dolore dentro di me, evitando di farlo fuoriuscire, incastrandolo nel mio petto. Mi sdraiai sul letto e piangendo abbracciai i cuscino, nessuno in quel momento riuscirebbe a capire che grande errore è la mia vita.

La solitudine incontrò l'amoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora