Troubles of the H-age (III)

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2010 a.t.b.
Colchester Institute of Science.

«O forse sono le ragazze indiane che sono tutte delle gran–»

Rakshata si voltò e lanciò uno sguardo assassino a chiunque avesse parlato. Quando lo individuò, dato che il grand'uomo era rimasto con la bocca mezza aperta per la sorpresa, si rese conto che era il ragazzo con cui era andata a letto il sabato precedente dopo la festa delle matricole. Strinse con rabbia le mani sul vassoio del pranzo.

Finisci la frase, forza, pensò fissandolo, le labbra carnose piegate in una smorfia. Io sono una puttana e tu un gran figo, vero?

Lui non fu neanche in grado di tenere gli occhi fermi in quelli di lei. I suoi amici, interdetti, lo videro assumere un'aria da cane bastonato e rimettersi a mangiare.

Rakshata passò avanti.

Che cosa aveva da ridire, quel tale? Sicuramente era piaciuto più a lui che a lei.

Con una sensazione di fastidio che le invadeva tutto il corpo, Rakshata si guardò attorno, scandagliando a uno a uno i tavoli della mensa. A parte un ragazzo seduto da solo in fondo alla stanza, che guardava distrattamente il telefono con la cannuccia di una bibita in bocca, tutti i presenti si erano radunati in gruppetti più o meno eterogenei.

Lei li oltrepassò uno dopo l'altro ancheggiando: era insensato credere che quelle ragazze vestite tutte uguali, con le loro camicette dai colli arrotondati e i jeans a sigaretta, stessero sussurrando proprio di lei. Eppure qualcosa nella sua testa glielo diceva, e la irritava. Lo facevano ormai anche gli occhi interessati degli uomini, tutti indirizzati verso il suo fondoschiena o la sua scollatura. Li trovava ripugnanti, ma allo stesso tempo ne aveva bisogno.

Si sedette con malagrazia su una sedia dell'ultimo tavolo, quello che solo una persona aveva scelto. Forse era stato a causa dell'eccessiva vicinanza al televisore da cui, ogni giorno all'ora di pranzo, l'Imperatore Charles zi Britannia faceva piovere sull'Università le proprie verità discutibili.

Tormentandosi il pendente attaccato alla collana, Rakshata sbuffò e si tirò più vicina al tavolo. Cercava, senza trovarla, la forza di mangiare il pasticcio di carne che aveva preso. Lo infilzava con i rebbi della forchetta, ma ogni volta poi la ritirava, rendendosi conto di non averci messo abbastanza violenza o di non aver immaginato in modo sufficientemente vivido la faccia di quel tipo di cui non ricordava nemmeno il nome.

Mentre tentava di figurarsi un'immagine tendente all'iperrealismo, uno spostamento d'aria improvviso le fece voltare lo sguardo a sinistra. Il ragazzo che aveva visto giocherellare con il telefono, un tipo esile con i capelli tinti di un colore tra l'azzurro e il violetto, era seduto a due posti di distanza. Le stava porgendo un piatto pieno di qualcosa, con le braccia tese come a non volersi avvicinare troppo, e la fissava come se provasse a stabilire un contatto con un alieno. I suoi begli occhi chiari, un po' rimpiccioliti dalle lenti degli occhiali, sembravano attenti a ogni minima mossa.

Rakshata ne aveva abbastanza degli uomini.

«E tu che cosa vuoi?» sbottò.

Lui non parve rimanerci male. Alla ragazza sembrò quasi di vedere il suo cervello processare la reazione scortese e catalogarla in un imperscrutabile cassetto. Questo, in qualche modo, la fece sentire in colpa.

Allora allungò le braccia verso di lui, tese le mani dalle unghie laccate imitando la sua posizione e prese il piatto. Quando lo avvicinò al viso, si rese conto che era una porzione di dolce e alzò lo sguardo interdetto sull'altro.

Il ragazzo inclinò la testa, cercando di capire cosa ancora mancasse, e si alzò dal suo posto. Fece qualche passo verso una credenza, prese un cucchiaino pulito e lo porse a Rakshata.

Čerenkov my loveDove le storie prendono vita. Scoprilo ora