Anya and the Sun (II)

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2018 a.t.b.
Area 11. Colonia di Tokyo.

L'aveva presa in braccio per qualche motivo, come una sposa, invece di lasciarla dove l'aveva trovata come avrebbe fatto chiunque altro in quel settore. Non era così insolito imbattersi in qualche pilota svenuto in terra franca, negli hangar per i Frame, collassato per il troppo stress o per una sincronizzazione con la macchina andata male.

Tanto poi si riprendevano tutti. E Britannia si riprendeva tutto.

Era una ragazza dalla corporatura fragile. Piccola, leggera. Sembrava quasi una bambina. Sul braccio sinistro, lasciato scoperto dalla canottiera, aveva un tatuaggio che ricordava una spada e proseguiva sino a dentro il guanto bianco.

Jeremiah, inorridendo al pensiero di soldati di quell'età, l'aveva appoggiata su una delle panche del giardino incolto che gli avevano permesso di curare. La guardò con apprensione quando lei, con un piccolo gemito, aggrottò le sopracciglia nello sforzo di aprire gli occhi, massaggiandosi debolmente la pancia con una mano.

«Ehi, sorellina, stai bene?»

Jeremiah non sapeva perché avesse usato quella parola. Era partito con l'intenzione di dire "signorina", ma l'istante dopo gli era parso fuori luogo. Anche "ragazzina" suonava decisamente male. Quindi qualcosa, nel suo inconscio, gli aveva suggerito quel soprannome strano.

La ragazza sussultò e si tirò su di colpo, appoggiandosi ai gomiti. I capelli ricci, di un rosa cipria, le ondeggiarono attorno alla testa come una nuvola.

«Ah... chiedo scusa, mi sono addormentata sul lavoro!» esclamò, con una voce sottile e gli occhi strabuzzati. Si interruppe all'improvviso e singhiozzò per la mancanza d'aria. «Ahi! Aah...»

La ragazza si raggomitolò su se stessa, portando una mano all'inguine come per alleviare il dolore di una ferita invisibile. Jeremiah scattò verso di lei, allungando le braccia per sorreggerle il busto in caso di necessità, senza tuttavia toccarla.

«Sei ferita?» le domandò, preoccupato.

«No, no... ah, adesso mi passa...»

Il viso della ragazza, che pochi istanti prima era sfigurato da una maschera di sofferenza, mutò repentinamente. Le braccia che teneva sul ventre le ricaddero lungo i fianchi e lei si sedette sulla panca. Diventò inespressiva, quasi non ci fosse nulla dentro di lei. Quasi fosse lei, quella meccanica.

«Ciao,» gli disse, atona.

«Ciao...» quella parola strana, che da così tanto tempo non pronunciava, morì soffocata da una realizzazione. «Oh. Ti chiedo scusa, non ti avevo riconosciuta. Sei Anya, il Knight of Six, vero?»

Lei sembrava più concentrata sul luogo che la circondava, sui meli appena germogliati e sull'edera, piuttosto che sul modo in cui Jeremiah aveva strutturato il discorso.

«Sì».

«Mi dispiace se ti ho mancato di rispetto,» disse lui, in ogni caso. Sempre principe, Jeremiah, gli avevano insegnato, anche se tutti coloro che hai attorno dovessero dimenticare la cortesia. Quella ragazza non era certo un nemico, fuori dal campo di battaglia. Era come lui. «Ti ho trovata svenuta a terra vicino a un hangar e ti ho portata qui».

Anya si scostò una ciocca di capelli che le era ricaduta sulla fronte e, come accorgendosi solo in quel momento che era imperlata di sudore, vi indugiò per qualche secondo con le dita.

«Tu sei Orange, vero? Sei quello che mi ha restituito i ricordi».

«Sono Jeremiah Gottwald».

Un sorriso, anche se solo abbozzato, attraversò le labbra della ragazzina.

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