Capitolo 3

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Jeremiah
Mi svegliai la mattina seguente e chiamai mio padre. Gli dissi di venire da solo, non volevo vedere nessun altro. Feci colazione e mi trascinai, strusciando i piedi a terra, nel corridoio di fronte alla camera della ragazza. Mi sentivo un po' intontito per via degli antidolorifici. La porta era socchiusa e intravidi sua madre appoggiata sul letto.
"Come sta?" domandai sottovoce all'infermiere che stava attraversando il corridoio in quel momento. Era uno dei due con cui avevo parlato la notte scorsa. Scosse la testa e alzò gli occhi al cielo, poi mi disse: "Ha una commozione cerebrale e una frattura al perone. Non si è ancora svegliata."
Sentii il mio petto implodere, il cuore battere all'impazzata e la temperatura aumentare improvvisamente.
"Starà bene?" balbettai.
"Le prossime ore sono decisive. Dobbiamo capire come il suo corpo reagirà al trauma. In ogni caso avrà un lungo periodo di convalescenza."
Mi sentii leggermente sollevato, non mi disse di no, e quello era il massimo a cui potevo aspirare in un momento del genere. Ma non mi disse neanche di sì, così il sollievo durò poco più di un istante. Mi sedetti, ora che il dolore fisico si era placato, la mia testa era di nuovo in fermento. Rimasi a rimuginare tra i miei pensieri, finché vidi la mamma della ragazza uscire dalla stanza. Non mi vide. Entrai di nascosto e mi misi dove prima era seduta lei. Guardai quella ragazza, aveva i capelli alle spalle, mossi e tutti arruffati. Il gesso alla gamba, e diversi ematomi e ferite sul corpo. Mi sentii terribilmente in colpa. Mi appoggiai sul letto con la testa e scoppiai a piangere.

Quando rientrò sua madre ero ancora con il volto immerso nel lenzuolo e gli occhi rossi.
"Che ci fai qui?" mi urlò contro con tono severo.
"Io... Sono venuto a vedere come sta." era la verità.
"Vattene. Hai già fatto abbastanza." disse, ora totalmente inespressiva.
"Mi dispiace molto." risposi, alzandomi e uscendo dalla stanza.

Non è sempre estate | Jeremiah FisherDove le storie prendono vita. Scoprilo ora