PRECISAZIONE IMPORTANTE PRIMA DI LEGGERE IL CAPITOLO: In questo capitolo ci sarà una scena delicata che, per rilevanza storica, non avrei potuto eliminare dal contesto narrativo; pertanto invito chiunque non se la senta di leggere argomenti di tortura psicologica e/o fisica, premettendo che sono comunque motivati dal periodo storico drammatico e che io, in quanto autrice e persona, ovviamente non giustifico, di saltare il primo paragrafo e raggiungere il secondo, laddove si riprende la narrazione a casa di Ludwig."Se esiste un Dio, dovrà chiedermi perdono"
Quella notte, Gustav non avrebbe dormito e non avrebbe fatto dormire neanche il campo. Detto ciò era l'ora di cena, attimo di pausa in cui tutti si sarebbero rifocillati: avrebbe potuto raggiungere la mensa come i suoi compagni d'armi, ma così non fu e, anzi, si mise a perlustrare i dintorni alla ricerca di qualcuno che potesse dargli corda su quel progetto d'odio e frustrazione che gli ronzava in testa.
La verità è che stava cercando in tutti i modi di allontanare qualsiasi ricordo, il sentimento amaro suscitato dalla lettera ricevuta; la sua amata Otti non c'era più, quella dolce creatura che aveva rasserenato il suo oscuro animo non c'era più, quella donna che aveva portato via dal suo cuore la coltre d'odio iniettata dalla propaganda non c'era più. No, non c'era più.
Ogni volta che la mente di Gustav sussurrava quel maledetto "non c'è più", egli scuoteva la testa come a volerlo negare, cancellare. Era un pensiero da scacciare, un insetto fastidioso che gli riempiva le orecchie.
Di colpo scattò qualcosa in lui. Si rassettò la giacca, tornò ritto sulla sua postura e un ghigno malefico gli si dipinse in volto. Era improvvisamente lucido e certo di quello che sarebbe andato a fare: se la vita era così dolorosa, sarebbe stato lui stesso a prendersi il suo divertimento.
Radunò Helmut e Fritz, due secondini delle SS dediti al vizio del sadismo che, come lui, erano quasi incapaci di ribellarsi a un ordine; poi, tutti e tre insieme, s'incamminarono verso la mensa dei detenuti: questa si trovava all'aperto e i poveracci, le loro nuove prede, erano seduti in terra, in fila per raccogliere la loro brodaglia.
«Chiedete chi di loro è sposato. Dovete essere certi che lo siano», si raccomandò Gustav, mentre gli altri due scuotevano la testa affermativamente.
E chi avrebbe mentito? Anche se privati della loro fede al dito nel momento del loro arrivo, il segno di questa era ancora visibile, come inciso sulla pelle, e segnava l'anulare con un piccolo solco; era lì per tutti i mariti prigionieri del regime nazista, ricordava la privazione di un simbolo, la lontananza da casa, la nostalgia dei propri affetti.
Si avvicinarono tutti e tre: Helmut e Fritz, però, furono i soli a ispezionare il nugolo umano che avevano dinanzi; si mossero in avanti, mentre Gustav, raggiunta la destinazione, se ne stette fermo, impettito, aspettando che fossero i due scagnozzi a portargli le sue prede.
I prigionieri che stavano mangiando erano ormai del tutto asserviti a quella brodaglia disgustosa e a quel pezzo di pane nero raffermo. Quelli ancora attaccati alla vita, con un briciolo d'anima ancorata al corpo, rabbrividirono; gli altri si limitarono a tirarsi in piedi come segno di rispetto dovuto ai torturatori del campo, ma precisiamo che lo fecero a fatica.
«Vogliamo gli ebrei che hanno moglie», disse Helmut con un'espressione severa, forse addirittura autoritaria, sul volto.
Fritz si girò verso Gustav per sapere quanti ne dovessero tirare via e l'interpellato fece segno "cinque" con la mano.«Avanti», Fritz incalzò i prigionieri: «cinque di voi che hanno moglie facciano un passo, volontari». Come se potessero essere davvero volontari!
Tutti i detenuti si guardarono alla ricerca del capro espiatorio di turno, ma con stupore dei più ce ne furono cinque che mossero i passi come richiesto. Morire per disperazione era peggio che morire per mano di un'SS che voleva umiliarlo. In fondo cosa gli era rimasto? Non avevano più beni, non avevano più la dignità. Spogliati di tutto, perfino dei loro peli sulla pelle, dei capelli: non più persona, ma numero. Non avevano più cari, sopratutto non sapevano se le proprie mogli, arrestate con loro, fossero ancora vive. Il freddo, le torture, le ingiurie, la fame, li avevano totalmente alienati dalla realtà tanto da essere avvolti da un dolore così disperante, così straziante, da volersi lasciarsi morire; se non contro il filo spinato elettrificato, per mano di un sadico gioco perverso, purché dopo scendesse il buio, la coltre avviluppante del nulla, l'immensità, la fine dell'anima, la morte.
Gustav li raggiunse, emise il verdetto, l'ordine: «spogliatevi, i vestiti non vi servono». Li intimò a denudarsi con quel tono di voce scattante, freddo, che non prometteva niente di buono se non solo l'inizio del delirio che si stava avvicinando. «Subito!» tuonò rabbioso.
I prigionieri si affrettarono il più possibile: nudi, tremavano ancora di più per il freddo e l'umiliazione.
«Ora, dato che avete posato le ciotole in terra per mangiare, avanti...» fece qualche altro passo. «In ginocchio!» gridò; «mangiate, come gli sporchi maiali che siete». Gustav era fuori controllo e nessuno lo avrebbe fermato, tantomeno Ludwig, poiché assente dal campo.
I prigionieri si guardarono tra di loro e s'inginocchiarono in attimo dopo, senza sé ne ma. Cominciarono a mangiare con ormai la stessa riluttanza che provavano per la vita.
Gustav, compiaciuto, applaudiva. «I miei bellissimi e sporchi maiali», li derise. Seguì un breve silenzio, mentre si gustava la scena dell'umiliazione inflitta, poi esplose di nuovo in un rigurgito di frustrazione e rabbia: «Allora, bestie. Cani immondi che non siete altro, cosa dovrei farci con voi?» domandò come se potessero rispondere. «Voi che osate insozzare le nostre città con i vostri escrementi». Sembrava Stesse parlando davvero a dei cani.
Tutti gli altri guardavano attoniti.
Gustav fece un cenno agli altri due colleghi, i quali si "premurarono" di urinare contro i malcapitati. «Cosa si prova eh? Cosa si prova a essere insudiciati, sporche e luride bestie, parassiti».
«Cosa direbbero le vostre mogli se vi vedessero così? Per quello che siete, luridi topi».
A uno dei cinque scese una lacrima sul volto, mentre sentiva l'urina calda battergli contro la schiena ormai avvizzita.
«Direbbero che siete dei pusillanime, delle immonde creature che le hanno condotte a questo destino, che non siete stati in grado di proteggerle... ma a questo, ora, ci penserò io: sistemerò tutto». Era sempre Gustav a parlare. Si spostò quel tanto che bastava per avere i prigionieri sotto la sua ottica e disse:
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La ballata dei petali caduti
Historical FictionL'ufficiale tedesco Ludwig Dubois, nella Germania Nazista del 1940, con la sua propensione autoritaria e rigorosa, si troverà non solo a lottare contro i soprusi di un regime oppressivo, ma anche contro la follia di sua moglie. Una travolgente passi...