Capitolo 52

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Quelli che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo.

Frase incisa in trenta lingue su un monumento nel campo di concentramento di Dachau

Ludwig si era svegliato con quella bruttissima sensazione in corpo e non aveva più preso sonno: non che la cosa lo stupisse, ormai era abituato a dormire pochissimo

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Ludwig si era svegliato con quella bruttissima sensazione in corpo e non aveva più preso sonno: non che la cosa lo stupisse, ormai era abituato a dormire pochissimo. Si alzò, dunque, e andò ad affacciarsi alla finestra per cercare un po' di ristoro in quello che poteva essere l'immagine della natura; ma appena mise fuori il naso, si ricordò dov'era. Quella non era la sua amata Berlino e lui si trovava a Dachau, in mezzo al nulla; a pochi passi da quel campo di concentramento che, per primo, aveva fatto prigioniero lui.
Si sentiva soffocare. Il cielo del mattino non sembrava voler dare spazio alla luce e, plumbeo, era coperto da una leggera foschia, che non lasciava il passo al sole.
Non poteva iniziare peggio.

 
Per non starsene con le mani in mano e scacciare quei pensieri, si rifece il letto: perfetto, senza una piega, nulla fuori posto. Almeno su qualcosa riusciva ancora ad avere il controllo, mentre tutto sembrava sfuggirgli di mano. Sospirò, afflitto. «Se il buon giorno inizia dal mattino... non oso immaginare cosa mi aspetterà», bofonchiò tra sé e sé, mentre un sorrisetto gli si dipingeva sul volto nella contemplazione della bellezza del suo letto.

Si diresse in cucina, del tutto desideroso di bere un caffè; nero, amaro, intenso, che lo svegliasse definitivamente da quel torpore emotivo.

Entrò pensando di non trovare nessuno, quando, sentì: «Buongiorno, colonnello».

Jacob era sveglio, seduto al tavolo della cucina.
Avrebbe voluto rispondergli che non era affatto un buongiorno e, anzi, che era una mattinata orribile; ma poi si ricordò di essere un uomo educato. «Buongiorno a te. Sei già sveglio? Come mai?».


«Non ho proprio dormito, in verità. Quando ero al campo mi addormentavo per lo sfinimento e qui, appena chiudo gli occhi, sono pervaso dagli incubi, che mi fanno ridestare».


«Non dirlo a me, so bene di che sensazione si tratta». Ludwig si massaggiò le palpebre, tramortito da quel sonno che non lo abbandonava, ma che non lo faceva neanche riposare.
«Cosa la turba, colonnello?», domandò Jacob, preoccupato per l'uomo che lo aveva tratto in salvo.

 
«Non ho un sonno tranquillo dal 1918, penso. Finché ero in trincea dormivo e non dormivo e quando ci riuscivo, proprio come te, crollavo per lo sfinimento; poi sono tornato, mi sono lasciato una scia di morti alle spalle e ho smesso di contarli il terzo mese del 1914. Ho provato a fare ammenda per ognuno di loro, che fossero nemici o compagni. Non sapevamo neanche perché la combattevamo quella guerra. Poi c'è stata la spagnola, sono sopravvissuto e alla fine sono riuscito a sposarmi. Ho vissuto sereno i primi due anni, poi di nuovo l'incubo... E questa guerra, Jacob? Non so perché porto questa divisa. Sono quasi certo di essere stato assegnato a questo campo per un sinistro disegno del destino... e non so nemmeno perché ti sto raccontando tutto questo».

La ballata dei petali cadutiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora