"Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti."
(A. Gramsci)
Il freddo di Dachau era impietoso, forse anche più rigido dell'anno precedente, ma Gustav non sembrava sentirlo. Avanzava, camminando sulla neve, lasciando orme dietro di sé, verso quello che era il comparto delle SS. Anche lui doveva mangiare.
Nella sala principale degli alloggi, a un tavolo lunghissimo, si sedevano tutte le SS armate.
Prese posto anche lui, con la sua solita compostezza; era perfetto in tutto, non trascurava mai un dettaglio, che fosse nel bene o nel male. Meticoloso, preciso, puntuale. Spostò la seduta e si accomodò. Tolto il cappello, lo poggiò sulle gambe.
Un suo collega entrò rumorosamente nella sala e si fece largo tra gli uomini ancora in piedi, puntando proprio Gustav. Tirò la sedia, la fece graffiare per terra e Gustav chiuse appena gli occhi, arricciò il naso, per il frastuono e la volgarità di quei movimenti.
«Eccoti, bastardo» lo apostrofò «quanti ne volevi vincere ancora, eh?» e puntò il dito contro di lui.
Gli altri, ancora seduti, si immobilizzarono: non volevano perdersi certi momenti.
«E perché sarei un bastardo? Ho passato tutte le selezioni, persino il colore dei miei capelli è il più elevato in purezza. Di bastardo non ho proprio niente». In effetti era così: Gustav incarnava la perfezione tedesca, quella ariana, e se ne vantava, perché i suoi colleghi non potevano dire lo stesso. Aveva i capelli di un biondo chiarissimo, lisci e folti, rasati sulla nuca, più lunghi sul capo, perfettamente pettinati. Era alto, slanciato, atletico con una muscolatura definita da far invidia a un olimpionico. Il viso maschile, con gli zigomi alti, e gli occhi algidi, celesti al pari del cielo in una giornata serena della Germania in inverno.
«Potevi lasciarmene almeno uno!» si lagnò il suo accusatore, sedendo pesantemente sulla sedia e incrociando le braccia neanche fosse un bambino di cinque anni.
«Gustav, ma di che cosa sta parlando?» intervenne il commensale SS davanti a lui.
«Prima ci siamo sfidati. Per ogni ebreo che esortavamo ad avvicinarsi al filo spinato, avremmo vinto un turno al bordello» spiegò blando «si dia il caso che ne abbia vinti ben sei e che lui rimarrà senza fino alla prossima settimana.» Un sorriso mefistofelico apparve sulle labbra di Gustav.
Il suo interlocutore scoppiò a ridere, «Ma sei proprio scemo, Hubert!» gli gettò perfino il tovagliolo addosso, per deriderlo maggiormente. «Lo sanno tutti che Gustav non va con le puttane ebree, tutti! Quindi ha solo voluto umiliarti.»
Hubert andò su tutte le furie, avrebbe voluto passarlo alle armi, e lo avrebbe fatto davvero, se solo avesse potuto; tuttavia si limitò a diventare paonazzo, consapevole dell'umiliazione ricevuta, usando come arma, soltanto una cosa: la parola. «Sei proprio un grandissimo figlio di puttana, lo sai?»
STAI LEGGENDO
La ballata dei petali caduti
Historical FictionL'ufficiale tedesco Ludwig Dubois, nella Germania Nazista del 1940, con la sua propensione autoritaria e rigorosa, si troverà non solo a lottare contro i soprusi di un regime oppressivo, ma anche contro la follia di sua moglie. Una travolgente passi...