Lo stato di torpore in cui crollo non mi abbandona fino alle luci della sera, quando un bisogno fisiologico mi obbliga a dirigermi in bagno.
Passando davanti alla porta del ripostiglio penso con nostalgia al periodo in cui il mio più grande problema era imparare a sviluppare le mie fotografie. Sembrava un ostacolo insormontabile, qualcosa ben oltre le mie capacità, ma poco alla volta ce l'avevo fatta.
Quel pensiero mi attraversa il cervello come una scarica elettrica.
La mia macchina fotografica.
Mi lancio verso la mia cassettiera, pregando che nessuno abbia trovato il nascondiglio in cui avevo lasciato la mia reflex. Avevo creato uno scomparto sotto il primo cassetto, e quando sento l'impugnatura della Nikon tra le mani a stento trattengo un grido di vittoria. Per fortuna la batteria ha conservato la carica. La accendo e controllo le impostazioni, sperando di ricordarmi bene il procedimento.
Quando l'avevo acquistata il commesso del negozio di elettronica mi aveva parlato dei metodi di condivisione delle foto appena scattate: via cavo, bluetooth "Oppure puoi inserire una sim satellitare e inviare le foto ad un altro dispositivo, anche dall'altra parte del mondo. Sai è una cosa a cui hanno pensato per i reportage di guerra..."
Sul momento mi era sembrata un'esagerazione, ma dato il basso costo l'avevo fatto. E adesso quella pazza idea potrebbe salvarmi la vita.
Appena finisco di smanettare con le impostazioni vado alla scrivania e scrivo un messaggio. "Charles ti prego aiutami. Vieni a prendermi qui domani mattina." Concludo con il mio indirizzo e scatto una foto. Butto il messaggio nel cestino e avvio la condivisione. Nella mia stanza sembra non funzionare, la spia che lampeggia a intermittenza non è incoraggiante.
Mi muovo freneticamente da un lato all'altro della camera, aspettando che quel maledetto led diventi fisso. Probabilmente quell'aggeggio che blocca il segnale del cellulare è proprio davanti alla mia porta, troppo forte per una semplice sim.
Mi allontano il più possibile in bagno, fino a rintanarmi nella vasca, il punto più lontano in assoluto: se non funziona nemmeno qui sarà stato tutto inutile.
Poi quella lucina diventa improvvisamente fissa. "Invio completato."
E io mi ritrovo ad abbracciare una macchina fotografica, nella mia vasca da bagno vuota.
-
Chiaramente mi è impossibile prendere sonno. Ero convinta che i miei genitori avrebbero fatto un nuovo tentativo di riappacificazione, ma si limitano a mandare un'altra cameriera con la cena, un pasto che resterà intatto come quello precedente.
La notte sembra non passare mai. Trascorro il tempo immaginando come possa aver reagito Charles. Per un momento avevo pensato di contattare Susanne, ma dovendo agire in pochissimo tempo lui avrebbe avuto sicuramente più risorse. Chissà se aveva pensato che la mia fuga fosse volontaria. Scaccio quel pensiero fastidioso dalla mia mente. Però ormai tra quello, l'agitazione e la stanchezza continuo a ricaderci. E alla mattina sto ormai pregando che Charles abbia ascoltato la mia richiesta d'aiuto.
Ricevo un'altra volta la colazione e quando scoccano le 10 decido di agire. Inspiro. Espiro. E busso alla mia stessa porta.
"Sì?" La voce non è di Benoit, un punto a mio favore.
"Voglio parlare con mio padre."
"Glielo vado a chiamare."
"No!" Non voglio suonare disperata, ma perentoria. "Voglio parlargli nel suo studio. Portami da lui."
Non so chi sia il guardiano che ha sostituito Benoit, ma lascia passare diversi secondi, ognuno dei quali pesa sul mio cuore come un macigno, prima di aprire la porta.
"Una sola mossa avventata e ho il permesso di usare le maniere forti, la avverto."
Annuisco convinta, non voglio fare casini con lui. Almeno non adesso che sta per accompagnarmi dalla mia camera al terzo piano fino allo studio di Marc, al piano terra. Camminiamo piano fino alla pesante porta di legno, dove è presente un'altra guardia.
Il ragazzo che mi ha guidato fin qui bussa al posto mio. "Signor Delacroix? Sua figlia le vuole parlare."
"Prego." Mio padre solleva lo sguardo da alcune carte che stava consultando, alquanto incredulo. "Che sorpresa."
Entro nella stanza e mi butto sulla poltrona alla mia destra.
"Vuole che rimanga?" Questo ragazzo deve esser stato appena assunto, è troppo ossequioso.
"Non serve, ti ringrazio." Non lo osservo mentre chiude la porta, devo mantenere lo sguardo incatenato con quello del mio genitore. "Ti sarai calmata rispetto a ieri, immagino."
"Ho avuto tempo per riflettere." Pondero bene come proseguire. "Sono qui per contrattare."
"Non io."
La sua frase mi prende in contropiede "Cosa intendi dire?"
"Che non voglio contrattare. Si farà come dico io." Lo dice come se stesse affermando una cosa ovvia, come se stesse parlando della Terra che gira attorno al Sole.
"Io volevo solo contrattare un piccolo extra." Cerco di prenderlo all'amo. Ci riesco.
"Un extra di che tipo?"
"Come ti dicevo, ho avuto molto tempo per pensare. E sono arrivata alla conclusione che la mia fuga, chiamiamola col suo nome, è stata una richiesta di attenzioni." Quello che dico non ha alcun senso. Nessuno. Ma deve averlo per lui.
"Attenzioni?"
Ce la posso fare. Devo. "Sì papà..." Riesco a farmi diventare gli occhi leggermente lucidi. "Il mio extra è un abbraccio." Fingo di asciugarmi una lacrima. "Voglio solo un abbraccio, poi farò quello che vuoi."
Posso quasi sentire la sua mente sondare ogni possibile inganno, ricordarsi che ci sono almeno due guardiani alla porta, e che io alla fine sono una ragazza mingherlina che non può fare del male a nessuno.
Non dice nulla. Fa leva con gli avambracci sul piano di mogano della scrivania per alzarsi e mi viene incontro. Non ha bisogno di dire che accetta la mia stupida richiesta, si limita ad allargare le braccia e aspettare che lo ricambi.
Mi alzo continuando a fingere commozione, e lo abbraccio. Sentire le sue mani addosso mi dà il voltastomaco, dopo tutti gli anni di sofferenza che mi ha costretto a sopportare. L'unica cosa a impedirmi di vomitargli addosso è il pensiero di quello che sto per fare.
Perchè nell'emozione del momento non si è accorto che ho invertito le nostre posizioni, e adesso sono io quella più vicina alla scrivania.
E alle finestre che stanno dietro.
Finestre al piano terra.
Che si affacciano direttamente sulla strada.
Era stato papà a volerlo così. Quando ero piccola aveva ricevuto i suoi clienti per un po' di tempo nella biblioteca al primo piano, poi si era trasferito. "La gente deve vedermi quando sono a lavoro."
Grazie Marc.
Appena allenta la presa arriva il momento. Il mio.
"Te l'avevo promesso." Gli sorrido radiosa, illudendolo che ora sia tutto a posto. "Finirà sempre così. Una, cento, mille altre volte."
Ha ancora lo sguardo corrucciato mentre lo sbilancio verso la poltrona. Non serve neanche che lo colpisca, devo solo guadagnare un secondo.
Un secondo che mi permette di lanciarmi verso la finestra alla mia destra. Un serramento antiquato e poco robusto, che però il capofamiglia dei Delacroix si era sempre rifiutato di sostituire, confidando nel sistema di videosorveglianza.
Spalanco la finestra e salto fuori, atterrando in un'aiuola. Sento una fitta alla caviglia sinistra, ma non c'è nulla che possa fermarmi adesso.
La guardia fissa all'entrata di casa è lontana, il grido di mio padre mi arriva come se provenisse da un altro mondo. Uno al quale non sono mai appartenuta.
Inizio a correre.
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Come una cometa // Charles Leclerc
FanfictionCamille fugge. Fugge da una vita agiata ma noiosa, fugge dai legami imposti dalla sua famiglia, fugge abbandonando il fidanzato storico all'altare. La sua nuova vita, oltre all'amicizia, la porterà ad incontrare uno sconosciuto, un intrigante sedu...