Capitolo 5 - Seconda rivoluzione

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Il mattino successivo sia io che Susanne ci svegliamo tardi. Eravamo rientrate con l'ultimo battello, quasi per miracolo grazie ad uno dei marinai che ci aveva visto correre come due forsennate lungo la banchina. 

"Buongiorno." Bofonchia la padrona di casa mentre le sto versando il caffè. 

"Buongiorno." Ribatto tra gli sbadigli. Matisse stava già sgranocchiando le crocchette che gli avevo versato poco prima. Come ogni mattina quelle restano per un po' le uniche parole che ci scambiamo, almeno finchè la caffeina non compie la sua magia.

"Ti sei divertita ieri?" Mi chiede Susanne mentre la sto aiutando a stendere il bucato.

"Direi di sì, dopotutto."

La mia stanchezza era sì dovuta all'ora tarda in cui eravamo rientrate, ma anche al paio d'ore che avevo trascorso rigirandomi nel letto. Sentivo la testa stanca e pesante, ma i miei pensieri continuavano a tornare alla breve conversazione avuta tra gli scatoloni con quel ragazzo. Erano state giusto quattro parole in croce, eppure non riuscivo a levarmelo dalla testa. La sua voce, il tono che aveva usato quando aveva confessato di cercare un po' di tranquillità, la mia figuraccia per avergli fissato il...

"A cosa stai pensando? Sei diventata tutta rossa." Ridacchia Susanne.

"Niente..." Sospiro profondamente cercando di riprendere il mio colorito naturale. "Ho incontrato una persona."

"Uh, racconta!" La mia coinquilina si accomoda a gambe incrociate sulla lavatrice. "Dimmi tutto, e non essere avara di dettagli sconci."

"Non c'è niente da raccontare." Rievoco brevemente quello che è successo ieri notte, con i pochi dettagli che ho a disposizione.

Susanne è pensierosa "E non sai niente di lui? Un nome, nulla?"

"No. Ha detto di essere amico del proprietario della barca, ma immagino che non sia molto utile."

"Purtroppo no. Però tra una settimana avrò un'altra serata a Monaco, è possibile che lui partecipi ancora." 

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Le giornate avevano iniziato ad essere piuttosto tiepide, e non trovando giusto restare in casa a poltrire avevo iniziato a girovagare per Nizza, almeno per poter conoscere la mia nuova città. Le lunghe camminate mi aiutavano anche a pensare sempre meno alla mia vecchia vita: i ricordi impauriti e pieni di rammarico svanivano poco alla volta, lasciando solo quel poco di buono che nonostante tutto c'era stato. 

Mi mancava l'arte parigina, quel bar nascosto in Saint Germain des Pres dove amavo rintanarmi a fare colazione, i pomeriggi trascorsi al Pere Lachaise scoprendo ogni volta una nuova storia legata ad una semplice lapide. Ma soprattutto mi mancava la mia fidata macchina fotografica, la reflex che da diversi anni non mancavo mai di mettermi al collo. Prima di quella avevo usato una macchina classica con il rullino, imparando a sviluppare i miei scatti nel ripostiglio del bagno grazie ai tutorial su YouTube. L'avevo fatto per diverso tempo, ma quando mia madre l'aveva scoperto non ne era stata per nulla contenta. 

Sia lei che mio padre trovavano ogni comportamento minimamente artistico una perdita di tempo, ma soprattutto un'attività non idonea al nostro ceto sociale. Quando avevo tentato di difendere la mia passione, in uno scatto d'ira mio padre aveva estratto un rullino, guastandolo irrimediabilmente. Perciò ero passata al digitale, questa volta senza dire nulla ai miei genitori. 

Avevo tentato di coinvolgere Albèrt, portandolo con me a mostre e vernissage, ma il suo sguardo annoiato (vagamente coinvolto solo quando l'arte diventava un metodo di investimento per rimpinguare il proprio capitale) mi aveva fatto desistere. 

La fotografia era una cosa solo mia, e per quanto cercassi di colmare quella mancanza con la fotocamera del cellulare ereditato da Susanne, non era la stessa cosa. Prima o poi mi sarei decisa a trovarmi un lavoro, e tra i miei primi acquisti ci sarebbe stata sicuramente una macchina fotografica. 

-

La domenica sera mi rendo conto di guardarmi attorno cercando di individuare una faccia conosciuta nella folla, l'unica oltre a Susanne. Un'impresa pressoché impossibile, per colpa delle luci stroboscopiche della sala dello Sporting. E la gente era così accalcata in pista da ballo da non poter distinguere alcunché. 

Dopo alcune ore di contemplazione, rinuncio alla mia impresa disperata, e faccio cenno a Susanne che sarei uscita nei giardini a prendere un po' d'aria. Ci metto qualche secondo ad abituarmi alle luci soffuse nascoste tra la vegetazione, in netto contrasto con i flash che avevo appena lasciato, e mi incammino giù per una scaletta di pietra che finisce direttamente in mare. Tolgo le scarpe che la mia amica mi ha prestato, e mi siedo sulla piattaforma di cemento: non è particolarmente comodo, ma appena immergo i piedi nelle acque buie provo sollievo.

Mi perdo ad osservare le barche al largo, le stelle, un paio di elicotteri che si dirigono verso l'eliporto, il traffico di auto lungo le vie di Larvotto, una processione luminosa che non si ferma mai. 

"Tu ed io la dobbiamo smettere di incontrarci nei luoghi più improbabili."

Quella voce quasi mi fa dare una manata alle scarpe che sarebbero finite in mare. E' lui, il ragazzo della barca. 

"Inizio a pensare che tu mi stia pedinando. Devo preoccuparmi?"

"Direi di no, sono appena arrivato." Si siede su uno degli scogli accanto alla scala, e mi osserva a braccia conserte. 

"Non hai una bella cera, sembri appena uscito da un'asciugatrice." 

Non voglio essere maleducata, ma mentre al nostro primo incontro era assolutamente impeccabile, stasera ha il viso segnato, e la camicia che indossa sembra aver combattuto una guerra contro il ferro da stiro (uno scontro chiaramente perso). 

Mi guarda divertito per qualche istante, prima di dichiarare "Arrivo ora da un viaggio di lavoro, avresti anche tu la faccia stropicciata al posto mio."

"Allora chiedo scusa, non volevo offenderti." E' incredibile come non riesca ad evitare di fare pessime figure in sua presenza.

"Nessuna offesa, è stata solo una lunga giornata." 

Sto ancora pensando a come rimediare alla mia uscita infelice, quando un gruppo di persone passa vicino alla scala e saluta il mio interlocutore "Ehi Charles, non pensavamo che passassi da queste parti, ci è dispiaciuto per oggi. Vieni a bere qualcosa?" 

Charles. Il ragazzo misterioso si chiama Charles. 

"Andate avanti, vi raggiungo." 

La comitiva si dirige verso la sala dello Sporting, lasciando me e Charles soli, ancora una volta. 

"Devo andare. Chissà dove ci incontreremo la prossima volta."

"Ammetto di essere curiosa. Buona serata."

Mi sorride e si incammina lungo i gradini di pietra, un movimento che mi fa notare quanto il retro dei suoi pantaloni non sia perfetto per colpa di sabbia e salsedine strappati alle rocce sulle quali era seduto. Questa volta però, mi guardo bene da fare osservazioni ad alta voce.

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Note

A giovedì con il prossimo capitolo!

Come una cometa // Charles LeclercDove le storie prendono vita. Scoprilo ora