CAPITOLO II

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Santa Hiselda, New Mexico

Due cornici stanno ordinate su una consolle di legno scuro. In una alloggia una coppia, in bianco e nero. L'uomo è poco più di un ragazzino, in uniforme da cerimonia, con il volto rasato e sorridente incorniciato dagli occhi e dai capelli chiari. La donna, più bassa, affonda fiduciosa e affettuosa il viso delicato nella sua spalla. Ha i capelli corti e castani, raccolti in un morbido e vaporoso pompadour e inonda di dolcezza col suo sguardo. La foto è del 9 gennaio 1946, poco dopo la guerra, come indicato dalla scritta in marker sui suoi bordi bianchi. I due si trovano davanti a una modesta casa bipiano in adobe che, a giudicare dalla loro fierezza, hanno acquistato di recente.

Di fianco a questo ridente quadretto dorme invece il ritratto di un altro giovane in uniforme, la bandiera stirata alle sue spalle: i suoi lineamenti sono un mix di quelli della coppia dell'altra foto, si tratta del loro figlio. Quello sguardo sprezzante, speranzoso e trepidante che tanto ricordava quello paterno si è spento. E fin troppo presto, come suggerisce la placca commemorativa in ottone accanto alla foto.

"Servì la Nazione con il massimo onore- Riposa in pace, Rudolph Steiner, 1948-1968"

Rudolph, l'ennesima vittima di quel vergognoso carnaio chiamato Vietnam. Migliaia e migliaia di giovani falcidiati dalle mitragliatrici, bruciati dal napalm e soffocati dal veleno. Dove si spensero quegli occhi azzurri? Quale orrore fu l'ultima immagine che filtrarono? Rudolph urlò, pianse, chiamò sua madre o suo padre, se ne andò in silenzio, senza accorgersene? Pensò alla fidanzata, a quella piccola casa di adobe, a Dio? Nessuno potrà mai saperlo. La giungla ha ingoiato la sua anima e suoi ricordi con noncuranza, per poi dissolverli senza pietà alcuna.

Dietro la targhetta, la bandiera degli Stati Uniti, piegata con meticolosa cura in una teca triangolare e appianata di ogni minima grinza. La bandiera che ne avvolse la bara durante i funerali, che trattiene ancora le lacrime e la polvere da sparo delle tre salve di fucile.

Fatta eccezione per la mensola, il resto del vestibolo è scarno, le pareti di fango candido sono immacolate e non ci sono altri mobili. Al centro si erge la porta, una lastra di legno grezzo e friabili scaglie di vernice azzurra. Sulla destra si aprono le scale, levigate dall'utilizzo come i plateau dell'Arizona.

A sinistra, un ramo irradiato in una rete di capillari più piccoli costituisce un attaccapanni.

La porta si apre e rivela la sagoma scura di un uomo, illuminato dalla cieca luce giallastra dell'ingresso. Porta un cappello in feltro, come i cowboy, una camicia di flanella sbiadita e jeans scuri di polvere. Con un'esalazione sofferente fa scivolare dalla spalla il fucile a leva tenuto a tracolla, lasciato cadere vicino al grosso ramo, su cui poi appoggia il copricapo. Porta i capelli lunghi, con le punte un po' arricciate. La chioma bionda è ora stata infettata da ciocche bianche e grigie. È lui l'uomo della fotografia, Steiner. I suoi lineamenti, coperti da una patina coriacea, rugosa e abbronzata, cristallizzata dall'aspra vita di campagna, sono ancora lì, sebbene i baffi a ferro di cavallo, anch'essi sporchi di bianco, nascondano le labbra.

I suoi occhi hanno subito la trasformazione che più impressiona: non sono più ridenti e pieni di vita come nella vecchia foto. Sono i diventati gusci secchi e inespressivi delle antiche e vivaci pietruzze turchesi, uccisi dal fardello che gli appesantisce e ricurva appena le spalle e gli rende tanto difficile l'avvicinarsi alla cucina. Ogni passo è una fatica, deve trascinarsi.

Anche quest'ultima è modesta come il vestibolo. Il tavolo lungo occupa il centro della stanza e gli altri mobili, come il fornello a gas dal piano annerito e il frigorifero datato, sono addossati alla parete opposta. Un cane meticcio di grossa taglia, dal pelo caffelatte, sonnecchia beato senza nessuna preoccupazione nella sua comoda cuccia. Di fianco, le ciotole piene e abbondanti d'acqua e croccantini.

How to kill InnocenceDove le storie prendono vita. Scoprilo ora